La satira nella poesia di Vincenzo Licata – Liceo Classico “T. Fazello”

Licata, poeta del mare: è così che viene definito Vincenzo Licata.
Il mare è il grande protagonista della sua opera e dal mare egli trae la sua più grande ispirazione poetica… Con lui il mare si sublima, diventa palpitante e sensibile creatura, fonte di vita e simbolo di un mondo che non c’è più, di un passato (voluto e cercato) da rievocare per esporlo ad un presente deludente.
Ed è proprio questo presente, così labile e falso, così ambiguo e farisaico che offre lo spunto al nostro poeta per dare sfogo ad un’altra voce, sepolta, connaturata nel suo animo, la voce di quell’ “italum acetum” che è anche, e non poteva non esserlo, una caratteristica dei Siciliani. Certo questa nota (comico-satirica) può sembrare a volte soffocare la vena poetica per eccesso di sfogo, ma è da questa vena satirica, unita alla riflessione etica, che viene fuori l’uomo e l’uomo siciliano con la sua tragica umanità. E Licata è soprattutto uomo: scende per le strade della sua marina, osserva i suoi pescatori, simbolo dell’uomo semplice e onesto, con la vita piena di stenti in mezzo ai furbi, a politici senza scrupoli e sfruttatori, in un mondo popolato di “pisci grossi e pisci nichi”. Proprio in questa poesia ci mostra con icastica chiarezza un mondo di presenze, li sardi, lu pisci cani e lu pisci spada che sembrano richiamare certe immagini della nostra vita.
“Li sardi”, inseguite dal pesce cane, col timore di finire ingoiate, finiscono per addossarsi l’una all’altra fornendo al pesce cane l’occasione per “ammuccarli”.
Quasi per miracolo si liberano da un pericolo quando “un pisci spata” che aveva ucciso il pesce cane, fa “di li sardi na stramera”. E con tono malinconico il poeta ammonisce che “la sorti è chista” per l’uomo: “o mori rusicatu di li nichi o t’agghiutti lu grossu”. La satira serve a Licata per esprimere la sua voce personale, diretta che lo introduce in un medias res, per cogliere gli aspetti più vari della realtà. Nascono così i canti umoristici, talvolta polemici ma sempre dolorosi e amari. Ne “Lu pupu di gumma”, il protagonista è un personaggio gonfiato, un “pupu di gumma” appunto, uno che è diventato importante e famoso solo per essersi messo in mostra, ma senza meriti. E’ singolare, anzi un mistero come “la genti”, la massa, accorra non appena un “pupu acchiana lu scaluni”. E come questo ce ne sono tanti, mormora Licata, e meno male che arriva il vento, deus ex machina, a sgonfiarli. Ne “Lu pisci puddicinedda” Licata ancora una volta trae, dal variegato mondo marino, l’ispirazione per mettere in luce gli aspetti della vita umana che più gli stanno a cuore: la vita misera e stentata degli uomini comuni e onesti e quelli dei “puddicinedda”, inutili ma fortunati. Protagonista è “patruni Turi”, un povero pescatore che ingaggia ogni giorno col mare una dura contesa per la sopravvivenza e finalmente “bagnutu finu all’ossa”, riesce a pescare un “pisci puddicinedda”. Ma ahimè! Questo pesce “apparteni a n’atra razza”, e finanche il governo lo protegge e patruni Turi deve pagare una multa, amara ricompensa dopo tanti sacrifici. A nulla serve reagire: “sti liggi sunnu puru ni lu mari”. Così gli uomini di senno, semplici ed onesti dovranno sempre chinare la testa a “sti puddicinedda” che in virtù della sorte che li ha resi privilegiati si gloriano del loro stato e sopravvivono. Ne “Lu ventu”, figura comica è quella di un deputato, un “sinsali di scecchi” diventato onorevole “pi sbagghiu”, che viene paragonato ad un pigiama che al passaggio del vento si fa “grosso” come il suo padrone che da piccolo e insignificante era diventato grosso e importante, ma passa il vento e il pigiama si sgonfia. Indimenticabile è la figura del deputato ne “la vampata”. Egli si affaccia alla finestra e vede l’ombra del suo corpo proiettata su un muro, ingrandita dalla “vampata” della paglia. Egli si rallegra del trionfo: “sugnu granni pi sta vittoria mia nta tutti banni!” La testa, il braccio, la bocca, il petto si vanno deformando, diventano oggetti: una “vutti”, una “pignata”, un “mandulinu”. Finita la paglia, tutto ritorna alle reali dimensioni, ma la “fudda” non si era accorta che “dd’umbra colossali era un focu di pagghia elettorali”. E questi uomini stanno sempre a galla come se fossero di “chiummu” e si affannano solo per i propri interessi come “ni lu jocu di la cannedda”. Elemento determinante in questa poesia è il comico che deforma in chiave caricaturale figure e situazioni suscitando la nostra risata, ma la poesia di Licata non ha il solo fine di “movere risum”: dietro questa vis comica si nasconde la tristezza, il suo sdegno e allora il comico diventa un’arma formidabile per denunciare un comportamento o una situazione e per demolire una condizione stagnante. Allora egli vuole ricordare che i momenti di “gloria” sono passeggeri e quando un “pezzo grosso” cade e “un c’è chi fari”, nessuno si muove per aiutarlo. L’uomo, infatti, “assimigghia a un manifestu” che finisce subito nel carretto dello spazzino.
Ma dove la freschezza della sua vena poetica si coniuga con una intensa vis comica senza che venga meno il suo impegno sociale e civile è ne “Lu casu di Sciacca” e Licata affida il suo messaggio ad un personaggio singolare: Franciscu Aceddi-Aceddi, un vagabondo, ma un figlio del popolo dotato di quella saggezza popolare nata dalla sopportazione della miseria e dalla abitudine alle ingiustizie subite quotidianamente dai siciliani.
Viene preparato un solenne “schiticchiu” che ricrea quasi un’atmosfera aristofanesca e alla fine tra i fiumi del vino e le grida degli altri commensali Franciscu racconta “lu casu di Sciacca”. Ma dal passato il suo discorso si volge al presente e diventa ora di speranza di un futuro migliore, ora denunzia di una condizione: il desiderio di libertà, l’incapacità dei governanti, gli imbrogli di quanti vogliono fare carriera nello sfruttamento degli altri.
“E su cunvinti chi semu gnuranti”, dice Franciscu, “nui semu sulamenti travagghiati, li peni e li facenni sunnu tanti”: è questa la triste condizione dei siciliani, condizione di duro lavoro e di angosce, sfruttati da politicanti da strapazzo.
Dice malinconicamente il poeta – Franciscu: “Quannu penzu a Perollo, penzu a tia / a tia politicanti novecentu / chi metti focu ntra la cumpagnia / chi fai campari un populu di ventu. / Pirchissu mori di malinconia / l’omu d’ingegnu c’avi un sintimentu / mentri na cricca spuria e in disaccordu / ti lassa un munnu scunsulatu e lordu”. Ma la colpa è anche dei siciliani che con la loro indifferenza permettono a questa cricca di governare.
Riflessioni amare che testimoniano la grandezza morale, innata e poetica del poeta Licata che di fronte al naufragare dei valori, di fronte alla corruzione della società, vuole, vestendo questa volta i panni di Turiddu, cambiare questo mondo alla rovescia affidando ai giovani il compito di portare finalmente “una democrazia di libertà”. E con accenti accorati dice: “O gioventù saccensi addurmintata, isa la testa e ghetta la to vuci”.
Uno dei capolavori di satira sociale è “Lu visitu” dove il poeta in chiave comica mette a nudo le ipocrisie dei rapporti sociali; “Minicu Taddarita” è morto e vicini e conoscenti vanno e vengono per il “cordoglio” ma tutto si trasforma in una farsa dove trionfano il pettegolezzo e le ipocrisie. Ma il simbolo della falsità è proprio la moglie, Cicca, vedova inconsolabile, che, rimasta sola, mostra il suo vero volto:

“E Cicca, finalmenti sula,
si fici na risata
e dissi forti, cu tuttu lu cori
Cicca ti livasti sta picata”.

La donna sempre presente nella poesia di Licata, non poteva mancare nella produzione satirica. La figura femminile è particolarmente sfaccettata, in alcune poesie ricorda stereotipi letterari legati alla misoginia risalente ad Esiodo “la fimmina a lu nfernu potta l’omu” o “ la fimmina ha puttatu sempri guerra” ed altro.
Ma anche la donna prosperosa come completamento dell’uomo, come oggetto di desiderio:

“dintra lu pettu teni du ciurille,
e il parpaglione con le ciancia nelle,
si alliscio con le mani le tue capille,
mi sento arricriare il centopelle!”

Ma la satira assume talvolta toni amari e ancora una volta si fa specchio della dolorosa condizione umana e in questo caso femminile e dice:
“Ricorda, o donna, tu sì margherita: l’omu ti spampina cu li so jita, dopo ti jetta nterra e si nni va!”
Da quanto sopra detto scaturisce una visione realistica della vita con i suoi drammi e le sue contraddizioni, ma non senza speranza e Licata, quando volge gli occhi verso il suo mare e si immerge nel mondo della sua infanzia, è come se ci additasse la vita da seguire: il recupero dei veri sentimenti, amore, affetti familiari, generosità, onestà che il ritmo frenetico della vita moderna, la corsa al successo, all’ambizione, il chiuso egoismo spesso vanificano.

Alunni
Irene Fisco
Giulia Sarullo
Valeria Navarra
Monica Bilello
Toni Nicolosi

Prof.ssa Coordinatrice
R. Catagnano

Preside
F. Brancato

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