La poesia di Vincenzo Licata – di Francesco Cassar

Sciacca,21-22 Giugno 1996

In occasione del primo convegno in ricordo del poeta Vincenzo Licata.

Vincenzo Licata ha cominciato giovanissimo a recitare i suoi versi in tante edizioni del nostro Carnevale, di cui e stato un grande con i suoi copioni, specchio del vissuto con una verve davvero inimitabile. In questo, non dimentichiamo che a lui, insieme al Maestro Giuseppe Panunzio  per la musica, dobbiamo l’inno di Peppi Nnappa, tutt’oggi sigla della manifestazione. Comincia pure a recitare suoi singoli componimenti poetici, chiaro anticipo di ciò che sarebbe venuto dopo. Infatti nel 1935 egli bussa alla porta con estrema delicatezza. Lo fa pubblicando una raccolta dal significativo titolo “C’è pirmissu”.

Inizia così una splendida carriera destinata a durare sessant’anni.

Per qualche decennio, la poetica di Licata sembra segnare il passo. Il fatto è che il dopoguerra non gli consente di più. La sua voce rasserena comunque il duro cammino della ripresa: i suoi recital, lo vedono in prima fila nell’incoraggiare i concittadini, soprattutto dei ceti più esposti, ad uscire dalle secche di una vita magra e stentata. E’, in ogni caso, il momento in cui il suo nome comincia ad essere conosciuto fuori Sciacca; per suo tramite, la stessa RAI si apre a comprendere i tesori della nostra provincia.

In una stagione socialmente più aperta, siamo nel 1958, Vincenzo Licata dà alle stampe “Furanata”, un insieme di vari spunti, stati d’animo, osservazioni dalla natura e dall’umano di ogni giorno: privato e pubblico. Detto questo, sbaglierebbe chi intendesse “Furanata” una pura e semplice raccolta scaccia-pensieri. Licata, quando scriveva non lo faceva mai a vanvera: dietro ogni suo verso c’era sempre il “vissuto” nelle sfaccettature di chi, come lui, sapeva osservarlo con sensibilità, con sottile indagine, mai con acredine, al più finissimo humour.

Nello scorrere del tempo la sensibilità di Licata si avvicina ancor di più al piccolo-grande mondo di Sciacca: lo specchio dell’umanità e della natura. Il 1961 coincide così con la prima vera sintesi poetica di temi originalmente presenti nella magia dell’arte. Questa, collegata con un episodio famoso della Storia di Sciacca, gli consente di unificare i più vari spunti personali in una prismatica visione, solo apparentemente retrospettiva. Mi sembra chiaro il riferimento al poemetto “Lu casu di Sciacca”, dove il Poeta si concede di unificare i due connotati tipicamente sciacchitani: quello conviviale “schiticchiaro” e quello d’antica vocazione storico-favolistica. Dove il personaggio Franciscu Aceddi Aceddi nient’altro è se non l’occasione per dare libero e sincero sfogo ai suoi veraci pensieri di figlio del popolo. E allora, sempre innamorato del suo paese, l’impianto poetico gli consente di celebrarlo in braccio alla sua Musa. Là in un autentico luogo fisico e mentale – “lu macasenu di Rattiddu a lu Calannirinu” – in una memorabile serata conviviale che raccoglie il “meglio meglio” della marina; presente, non tanto nome per nome, ma per qualificante soprannome: la “ngiuria” sciacchitana.

Chiaro, l’onomastico inventario non è fine a se stesso, perché asseconda il racconto; per il semplice fatto che “Lu schiticchiu”, la prima parte del poemetto, è esso stesso un racconto in versi della fantastica serata. Per contiguità familiari ho avuto la fortuna di vederlo nascere, autentico “pezzo unico” celebrativo e interpretativo della schiacchitanità. Ho avuto la parallela fortuna di veder nascere e crescere “Lu casu di Sciacca”, la seconda parte formalmente recitata da Franciscu. Posso dire che “Lu casu…”, nella poetica interpretazione licatiana, trasfigura se stesso in ciò che parzialmente è stato: ‘ntricciu di uomini del tempo trascorso nella nostra Città; luogo di “casi” sempre dietro l’angolo. Ciononostante Licata spera, regalandoci nel finale “L’Alba”, il più elevato e spontaneo messaggio di pace e di amore ai giovani che il nostro concittadino abbia mai concepito.

La poesia di Vincenzo Licata si viene ora precisando sulla tematica marinara, già presente a “spizzicunedda”. Ora, Licata parla del mare. Lo fa perché, cosciente di non aver potuto completare i suoi studi, avverte in sé,  e lo dice pubblicamente, di aver  frequentato “l’Università del Mare”. Sente, anzi, di esserne stato l’allievo più attento, per ciò stesso, prediletto.

Il perché è chiaro: figlio di Filippeddu, ogni momento rivissuto accanto e sul mare lo porta alla sua origine, alla dignità dell’esistenza interamente spesa a strappargli la sopravvivenza. Quante volte ha parlato del mare? L’università del Mare, nell’età matura, gli detta così la raccolta “Vintuliata di marina”. Quale che sia il tema di futura trattazione – eccetto “Don Turi e Gano di Magonza” – il “mare” è sempre presente in tutta l’intima commozione del suo animo davvero superiore. Perché, spesso, nei suoi discorsi afferma che tutti li sciacchitani siamo “gente di mare”: per una speciale benedizione di Dio e della Madonna del Soccorso.

FRANCESCO CASSAR

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