Il poeta del mare – di Giulio Ambrosetti

Vincenzo Licata parla del passato: la famiglia, le fughe dalla scuola e il film di Pietro Germi.

.

mareSciacca – Vincenzo Licata mastica un pezzo di pane. Inghiotte. E sospira: ”Oggi non mi sento tanto in forma. Che vuole sono nato nel 1906. E a ottantasette anni capita di non sentirsi tanto in forma. Comunque possiamo sempre parlare. Ma di cosa dobbiamo parlare?”. Già, che cosa chiedere a un poeta? E che cosa non chiedere? Non ci sono domande preparate. Solo l’ebbrezza di un viaggio nel passato, nel suo passato, tra ricordi, passioni, sogni e dolori. Dal balcone della sua casa il poeta Licata osserva il mare. E attraverso i rumori del mare misura i battiti del tempo. L’autore dello “Schiticchiu” abita da qualche tempo in contrada Stazzone, in una delle tante casette di Fazzitta. Mormora: “Sa non posso stare lontano dal mare. Ne morirei. Così, eccomi qui”.

La famiglia, innanzi tutto. Una parola magica per il poeta, che attacca tutto d’un fiato: “Mio padre era un uomo di mare. Un pescatore. Ricordo quando nel 1914 partì alla volta di Tripoli. Salparono da Sciacca con una barca a vela. Dovevano far conoscere agli africani la pesca a strascino. Allora avevo solo otto anni. E una voglia matta di andare con loro. E invece …”. E invece le cose andarono diversamente. “Anch’io come tanti Siciliani – racconta il poeta – potevo contare sui miei zii d’America. I miei zii riattraversarono l’oceano per tornare in Sicilia. Giunti a Sciacca, mi conobbero e mi adottarono. Così andai a vivere con loro. Era chiaro che il mare me lo dovevo scordare. Mi spedirono a scuola. Dovevo studiare. Frequentavo l’istituto tecnico Mariano Rossi. Ma già di allora avvertivo dentro di me la mancanza di qualcosa. Mi mancava l’educazione marinara, mi mancava il mare”.

Riecco l’eterna sinfonia che continua ad accompagnare la vita del poeta: il mare. Mare da respirare, mare da assaporare, mare da vivere, mare da morire. Ora gli occhi di Vincenzo Licata si illuminano. Dice: “Naturalmente marinavo la scuola. Scendevo al porto e mi nascondevo nella barca di mio padre. Sottocoperta. La mia esperienza in mare cominciò così”. E poi? Il poeta sorride: “Poi gli zii tornarono in America. E io ritornai a casa. Avevo quattordici anni”. Il racconto prosegue a zig-zag. Un continuo avanti e indietro nel tempo. Anno di grazia 1911: “Mio padre – ricorda ancora il poeta – tentò di introdurre nella marineria di Sciacca i motopescherecci. Non l’avesse mai fatto! Quasi tutti i pescatori gli si rivoltarono contro. Dicevano che quel rumore faceva scappare i pesci. Una delegazione di pescatori si recò dall’avvocato Angelo Abbisso, allora uno degli uomini più in vista del paese. Gli dissero: avvocato, parli lei con quelli di Roma, e faccia cacciare via quei mostri meccanici. Abbisso colse al volo l’occasione, arringò la folla e chiuse il discorso dicendo: voi intanto agitatevi che al resto penso io”.

Una rivoluzione anti-tecnologica? Vincenzo Licata allarga le braccia: “Beh, se non fu una vera e propria rivoluzione fu, comunque, qualcosa che gli somigliava molto. Ci furono scontri a fuoco. E anche morti. Tanto che il sindaco del tempo, Bertolino, chiese al comandante del quinto fanteria di intervenire. Alla fine vinsero i ribelli. I motori marini Bolinder a testa calda furono rispediti al mittente. Ma fu una vittoria effimera. Nel 1920 i motopescherecci presero il posto delle vecchie imbarcazioni a vela. Epilogo inevitabile”. Poi arrivò la guerra col suo carico di lacrime e di morte: “Allora – ricorda il poeta – avevo già lasciato l’impiego alle poste. Lavoravo presso la società Spero, un’azienda che estraeva olio dalla sansa”. La guerra e le bombe. E la disperazione. Il poeta abbandona la sedia. Il tempo di andare in cucina per prendere un altro pezzo di pane, per masticarlo con gusto, per assaporarlo. Poi riprende: “Eccome se me li ricordo i bombardamenti! Volevano distruggere l’aeroporto di Sciacca. Ma qualche volta arrivavano anche in città. Dopo i bombardamenti la gente prendeva d’assalto i negozi. Ricordo ancora un noto avvocato che si rotolava assieme a una grossa forma di formaggio”.

La guerra, ma anche il dopoguerra. Con il poeta che stava quasi per essere scritturato da Guglielmo Giannini, un bizzarro uomo di teatro che diventerà il leader dell’ ”Uomo Qualunque”, un movimento politico di protesta, in quegli anni molto popolare. “Giannini – racconta ancora il poeta dialettale – aveva visto una mia foto. Emi aveva invitato a Napoli. Mi disse: Licata il suo volto è notevole. Voleva che sostenessi un provino cinematografico. Poi scoprì che ero siciliano. Ed esclamò: Licata che cosa mi combina? Lei è siciliano, con quel tremendo dialetto. Che peccato! E la cosa finì lì”.

Il tempo vola inesorabile. E tra un boccone di pane e l’altro, ecco affiorare un personaggio che Vincenzo Licata considera unico e insuperabile: Pietro Germi. “Stavo sorseggiando un caffè in un bar di corso Vittorio Emanuele – racconta il poeta – Quasi istintivamente mi accorsi che un uomo puntava con interesse il mio profilo. Era il regista Pietro Germi. Poco dopo si avvicina e mi chiede: scusi, lei è di Sciacca? Rispondo di sì. E lui: può venirmi a trovare oggi al “Miramare”? Naturalmente ci vado. Appena mi siedo al suo tavolo Germi mi fulmina con una domanda: perché – mi chiede – i pesci grossi mangiano i pesci piccoli? La prego mi serve una risposta convincente. Non ho ancora risolto il mio problema religioso. Gli rispondo che i pesci grossi non avrebbero bisogno di mangiare i pesci piccoli perché nel mare c’è già il plancton. E aggiungo che sono i pesci piccoli che vanno dietro ai pesci grossi. Proprio come avviene tra gli uomini. Poi, così come avviene tra gli uomini, i pesci piccoli cominciano a rosicchiare i pesci grossi. Pietro Germi mi osserva sorridendo. Mi batte una mano sulla spalla e mi dice: lei sarà Pasquale Profumo di Sedotta e abbandonata”.

E la poesia? Poeta siamo qui da quasi due ore e non abbiamo parlato delle sue poesie! Vincenzo Licata si alza. Mezzo giro intorno al tavolo, ed ecco la risposta lapidaria: “Le poesie parlano da sole”. Stavolta insistiamo: almeno un ricordo, un segno, qualcosa … Il poeta torna a sorridere. E, quasi soffiando nell’aspro vento mattutino di giugno, sussurra: “Lu Schiticchio ho cominciato a a scriverlo a sedici anni. A trent’anni non l’avevo ancora completato. Un lavoro sofferto”. E’ l’ultima risposta. Ora il poeta non è solo stanco, ma pensa ad altro. Avremmo voluto parlare dei suoi recital, degli anni sessanta, di una Simca rossa con dentro un uomo che non poteva essere un poeta, una Simca che Vincenzo Licata, sognatore indomito, non riusciva mai a parcheggiare. Avremmo voluto chiedergli se è vero che i poeti non muoiono, ma fanno solo finta di morire. Ma ormai il poeta Licata naviga tra i suoi pensieri, naviga, naviga …

GIULIO AMBROSETTI

spacer

Leave a reply