Il cuore di un unicorno

Il cuore di Cicciobello smise di battere in un afoso pomeriggio di giugno alle 19,42.
Lo chiamavano Cicciobello perché era ciccio, non perché era bello. E chiamarlo Cicciobrutto era sembrato eccessivo persino a loro. Era grasso, impacciato nei movimenti, lento. Un rinoceronte. Giocava solo perché la palla era la sua. In porta però. I suoi compagni di squadra all’inizio erano stati un tantino scettici nei confronti delle sue capacità: piuttosto che passargli la palla indietro la cacciavano con foga in calcio d’angolo. Il primo passaggio Cicciobello lo raccolse dopo cinque partite. Probabilmente un errore.
Col tempo conquistò forse non la stima ma almeno la tolleranza dei suoi compagni. Merito anche della divisa da portiere del Napoli che si era fatto regalare per il compleanno: gli attribuiva un indiscutibile fascino sacerdotale, se paragonata alle misere magliette di cotone bianco con il numero scritto con l’Uniposca degli altri. Avrebbe voluto la divisa della nazionale, Cicciobello, ma sua madre non aveva trovato la taglia adatta.
Purtroppo però la divisa poliammidica lo faceva sudare come in una sauna: dopo pochi minuti grondava sudore ed il suo colorito paonazzo denunciava una preoccupante carenza d’ossigeno. Ma aveva coraggio, quel ragazzone massiccio come un rinoceronte. Lui non parava, lui si esponeva. Allargava le braccia, si piegava leggermente sulle ginocchia, gonfiava il petto e attendeva che l’attaccante adempisse la sua missione. Un attaccante furbo non avrebbe avuto difficoltà a piazzare la palla con un piatto di giustezza tra le gambe di Cicciobello. Al limite un dribbling appena accennato e poi un tocco d’esterno per aggirarlo. Ma la furbizia era dote che non abbondava negli attaccanti: concludevano immancabilmente l’azione con una puntazza, una fucilata da distanza ravvicinata realizzata colpendo il pallone con la punta della scarpa. Le possibilità di centrare Cicciobello, con quelle premesse, erano piuttosto elevate. E infatti lo centravano eccome. Qualche volta sul braccio o sulle gambe, dando all’azione una parvenza di respinta. Il più delle volte sulla faccia o lo stomaco, tant’è che Cicciobello, che per completare il suo portfolio agonistico era anche miope, giocava con una montatura di occhialini da piscina su cui aveva attaccato le lenti con lo scotch, perché la madre al terzo paio di occhiali stampati in fronte aveva minacciato di iscriverlo ai corsi di danza classica.
Il cuore di Cicciobello si fermò in seguito ad un calcio di rigore alle 19,42.
C’era stato un tempo in cui tutte le volte che la squadra subiva un calcio di rigore si operava una sostituzione: Beppe, l’idolo delle compagne di classe, lo rimpiazzava in porta, per poi cedergli nuovamente il posto dopo il rigore. Si trattava evidentemente di una crudeltà inaudita, perché equivaleva a costringere una persona a farsi carico di tutto il lavoro ordinario per poi metterla da parte nei momenti di maggiore visibilità. Considerando che si trattava di ragazzini meridionali, non era poi così crudele. Che si abituassero sin da giovani.
A furia di fucilate respinte con il muso Cicciobello si era conquistato il diritto di respingere le sbonnate, cioè i tiri violentissimi, pure in caso di rigore.
Anche perché Beppe si scansava sempre per paura di rovinarsi il cuiffo.
Il rigore che alle 19,42 fermò il cuore di Cicciobello era stato causato da Antonio Luccarelli, lo Scirea della squadra del palazzo, così chiamata perché si trattava di amici che abitavano nello stesso edificio. Avevano provato anche altri nomi: Palace’s Boys ( che dava un tocco di internazionalità ) e Spandau Ballet ( che non dava una mazza ma avrebbe dovuto attirare le ragazze ), ma alla fine la loro era rimasta la squadra del palazzo. Antonio era veloce, agile, avrebbe potuto anche conquistarsi un certo successo in quelle partite pomeridiane se il suo gioco non fosse stato appesantito dal peggiore dei fardelli: la coscienza. Mentre gli altri rincorrevano il pallone in mischie rugbisti che e si proponevano sempre e comunque come attaccanti, Antonio aveva coscienza, e rimaneva dietro a coprire, perché sapeva che in caso di contropiede il modulo 1-0-9 era comunque più affabile dello 0-0-10. Rimaneva nelle retrovie a ingoiare polvere e respingere pallonate, e quando riusciva a conquistare il pallone veniva subissato dalle urla dei nove centravanti che invocavano di essere messi nelle condizioni di segnare. L’unico dotato di un minimo di competenza tattica era Leo, l’intellettuale del gruppo, che in effetti copriva sempre a dovere il suo ruolo di centrocampista ( avanzato, per carità ), ma era talmente imbranato che no opponeva più resistenza della bandierina del calcio d’angolo.
La sfida di quella sera era importante, una classica per la gioventù di Statte, provincia grigia di Taranto, alla fine degli anni ottanta, tra un attentato dinamitardo ed una sparatoria tra spacciatori: contro la squadra del palazzo, figlia della piccola borghesia del centro, c’era la squadra della zona residenziale, figlia aristocratica di chi viveva nel verde della collina. La squadra del palazzo – umiliata e sconfitta decine di volte da quella della zona, i cui componenti giocavano a tennis, facevano nuoto, avevano buoni voti e si scambiavano complimenti in inglese – incredibilmente era riuscita a portarsi in vantaggio alle 18,21 con un gol in mischia del solito Beppe, che era riuscito a infilare la sua punta miracolosa in una selva di gambe. Inaudito per una squadra i cui componenti giocavano a ciclotappo sui marciapiedi, andava a nuotare a Lido Gandoli fotocopiando il biglietto dell’autobus e si scambiavano epiteti irripetibili in una lingua apparsa a Statte qualche secolo prima dell’italiano. Quel gol andava difeso. I nove centravanti, consapevoli per una volta delle necessità della patria, arretrarono il loro raggio d’azione applicando la cosiddetta marcatura a donna. Appiccicati all’avversario come se fosse stato la più sinuosa delle ragazze.
Le partite non avevano una duratura prestabilita. Si giocava finchè c’era luce, finchè c’era fiato, finchè le gambe reggevano. Fino a quel momento la squadra del palazzo aveva retto. Ormai era quasi buio e per quanto fossero ben allenate anche le gambe slanciate dei ragazzi della zona cominciavano a perdere colpi. Ogni volta che veniva sfiorato Beppe gridava e si lanciava per terra per perdere tempo. Stefano, lo spilungone che si faceva valere solo di testa e per l’uso sapiente dei gomiti, alle 19,39 decise di lanciarsi in dribbling a testa bassa contro la difesa avversaria. Un raptus di follia come te ne capitano dopo aver corso tutto il pomeriggio in un campetto ricavato accanto alla ferrovia, stando attento a non calciare la palla troppo a sinistra altrimenti finisce sui binari. Gli avversari non aspettavano di meglio: lo fermarono morbidamente con una padronanza vista solo ai giocatori virtuali del Commodore 64, in due tocchi soltarono la metà campo e si lanciarono in due contro uno verso la porta dei ragazzi del palazzo. Due contro uno, ma quell’uno era Antonio Luccarelli, lo Scirea del palazzo, uno tosto, uno che non tornava mai a casa senza un corredo di tagli e sbucciature, uno che portava in campo l’autorità delle cicatrici delle ginocchia. Antonio capì subito che avrebbe tentato il tiro, gli si lanciò contro, scivolò in un tackle perfetto, sembrava un rasoio, che con una gamba ti ferma il pallone e con l’altra te lo porta via. Ma quello non era San Siro, e così il polpaccio colpì una pietra e finì per intercettare anche le gambe dell’attaccante che alle 19,40 cadde gridando oh my god e rotolò come se l’avessero operato a freddo di appendicite. Seguì un silenzio di tomba. Cicciobello capì che era venuto il suo turno. Antonio infatti si rialzò con calma, tese una mano verso il ragazzo che era caduto, gli disse qualcosa di taumaturgico per cui questi smise improvvisamente di piangere e lamentarsi, poi alzò il braccio ed indicò un punto fi fronte a Cicciobello: rigore. Nessuno si oppose. Se l’aveva detto Antonio, era rigore.
Il miracolato intanto aveva recuperato le forze. Prese una lunga rincorsa. Cicciobello sentì il sangue che gli pulsava nelle tempie, l’odore del terriccio che si faceva intenso. Si asciugò il sudore dalla fronte. Gli occhialini erano sporchi. Non importava. L’importante era esserci, rischiare, decidere quale sarebbe stata la traiettoria del pallone e lanciarsi in quella direzione. Cicciobello era un rinoceronte, ma sapeva bene che il rinoceronte è un animale feroce, che dietro l’aspetto sornione nasconde una forza di volontà e dei muscoli possenti. E volò, Cicciobello, si lanciò nell’aria, e capì che il pallone non avrebbe superato la linea di porta perché c’era lui, su quella linea, e l’avrebbe impedito. La sbonnata colpì con violenza quel rinoceronte che si sentiva un unicorno, e gli fermò il cuore. Fu un attimo, impercettibile.
Alle 19,42 e pochi secondi un angelo distratto si accorse che il suo custodito stava per ritornare a casa prima del previsto. Vabbè il libero arbitrio ma quella partita meritava un finale diverso. Alle 19,43 Cicciobello riaprì gli occhi, il petto ansimante, e vide tutti i suoi amici intorno a sé. Il suo sguardo incrociò subito quello di Antonio, che dopo aver scaraventato via il pallone dopo la respinta aveva capito che qualcosa non andava. Dopo qualche attimo di smarrimento, il cuore di Cicciobello aveva ricominciato a macinare più forte che mai.
Le ombre lunghe della sera si adagiavano sull’orizzonte rossatro dell’ Italsider.
Il rinoceronte, almeno per quella calda sera di giugno, era stato il più leggiadro degli unicorni.

di Carmine Caputo
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Il racconto “Il cuore di un unicorno” si è classificato al terzo posto “ex aequo” della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009, con la seguente motivazione:

Sciacca, 1 Agosto 2009

“Il cuore di un unicorno”.
Spesso un cuore lo si trova anche in chi, grasso impacciato lento mostra di non averlo. Con un linguaggio disinvolto che riesce a fotografare spazi, immagini, personaggi, l’autore, prendendo a spunto una partita di calcio tra ragazzini meridionali, stigmatizza sentimenti, disegna profili, definisce caratteri in un mondo giovane, ma ricco di spinte emotive e di umanità.
Il racconto, di gradevole lettura, evidenzia buone capacità di comunicazione e trasmette un messaggio positivo.


Enzo Puleo
componente della Giuria del Premio

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