Acqua salata

Ho sempre abitato a distanza di sicurezza dal centro, del paese da bambino, della città appena più grande. E di passaggi, credetemi, ne ho chiesti davvero a tonnellate. Ma ce n’è uno, uno soltanto, che non dimenticherò mai.
L’auto: una vecchia Fiesta della Ford, altrimenti detta “La merenda”.
L’autista: mia Madre.
Era un 25 dicembre strano, sembrava che le casalinghe del mondo intero avessero acceso contemporaneamente il forno, perché faceva un caldo che nemmeno in maggio. Un sole pieno e tondo ciondolava in aria, facendo esplodere la pianura di riverberi sulle distese coperte di neve, che avrebbe avuto vita breve. Sconfitto il meteo, che invece mostrava fiori bianchi dal Brennero a Lampedusa, gli esperti potevano prendere i loro calcoli e farci aeroplani di carta.
Mentre Mamma rovistava tra i vani portaoggetti come avesse perso un pezzo da cento, “La merenda” continuava a scaldare il motore, soffiando scoregge fumanti che sapevano di zolfo dallo scarico. Avevo dieci anni allora e l’abitacolo stretto e lungo mi sembrava un missile, noi, due astronauti poco pratici e male attrezzati.
Le rare occasioni in cui mi lasciava solo nell’auto mi davano un’eccitazione particolare. «Scendo un secondo a fare bancomat» diceva, mentre poi, puntualmente, un’amica la inchiodava a parlare mezz’ora.
A quel punto restava l’intima solitudine di me e loro: gli oggetti che a decine costellavano cruscotto, portiere e sedili. Erano sparsi ovunque e, stando zitto zitto, li potevo sentire gridare: «Vieni, Federico. Siamo qua.» Ma generalmente erano bollati da un: «No, questo non lo devi toccare, Federico!»
Mi sfregavo le mani e prendevo a rovistare tra libretti di circolazione, assicurazioni scadute e pubblicità dai colori come tiepidi ricordi, cercando chissà quale segreto d’ importanza nazionale.
Vedermi fermo, mentre Mamma rovistava nel disordine dell’auto, mi procurò un’invidia tremenda. Ma durò poco, giusto il tempo necessario a rialzarsi, cacciare un gridolino e accennare una danza propiziatoria sul sedile: li aveva trovati. Aggiustò sul naso gli occhiali scuri da quattro soldi – credo li avesse comprati a una bancarella abusiva al mercato – e innestò la prima. Poi accarezzò l’acceleratore e bandì il freno dalla mente come fosse un fuorilegge.
«Ti è piaciuto il regalo di quest’anno?» mi chiese quando credevo avesse dimenticato che stavo anch’io seduto lì.
«Sì, Mamma, ma non era quello che avevo chiesto a Babbo Natale.» E già l’avermi costretto a compilare una letterina a dieci anni compiuti m’andava giù a fatica.
«Lo so, tesoro, lo so. Però quest’anno ha voluto regalarti qualcosa di utile.»
Il rumore meccanico di sottofondo mi riempiva le orecchie. Le ruote spappolavano grumi apocalittici di neve, sparando a bordo strada flutti di granita al gusto di catrame.
Mamma, concentrata a sterzare con violenza per tenersi in carreggiata, sembrava cercare le parole giuste. «Da quando Papà non c’è più…» esordì dal nulla. Solo questo, si bloccò e non disse altro per un pezzo.
Oddio, pensai, un’altra volta no. Erano mesi che insisteva sull’argomento e ogni giorno arrivavo a un passo dalle lacrime. Persino a quei tempi credevo che piangere una persona sconosciuta fosse una stronzata, tuttavia, addossarmi la solitudine di mia madre, abbandonata per strada a vent’anni, era insopportabile. E quel giorno ero troppo felice per rattristarmi inutilmente.
Puntavamo alla città come due frecce conficcate per due notti in un albergo. Come bonus, le avevo strappato la promessa di comprarmi tanta cioccolata calda da farmi abbronzare. Il top del top era l’assenza dell’amico che frequentava da un po’, quello che da qualche tempo mi costringeva a chiamare Papà, nonostante non m’assomigliasse.
Fortunatamente lasciò perdere, la sua faccia mi diceva che stava già pensando ad altro, così mi dedicai al finestrino. Controllavo gli addobbi impiccati ai cavi della luce all’ingresso della città, che tagliavano la strada come piccoli sciami di stelle.
I marciapiedi, alle tre e mezza del pomeriggio, erano vie sulle quali avanzavano fantasmi. Quattro serrande abbassate su altrettanti negozi, un nugolo di bar dai vetri appannati e due vecchi imbacuccati nei cappotti spessi una spanna, che ciondolavano con le mani intrecciate dietro la schiena. Novanta su cento s’erano scordati dove stessero andando e li avrebbero trovati la mattina, duri come il pesce in freezer.
Negli ultimi chilometri il tempo era cambiato e quando entrammo nella prima periferia, dove gli edifici cominciavano a impennarsi verso il cielo, tutto divenne grigio e freddo.
Nonostante i bocchettoni sparassero in aria un caldo africano, se mettevo la faccia accanto al finestrino, il mio respiro faceva il fumetto.
Imboccammo una via, per me una valeva l’altra, e dopo un paio di minuti la macchina arrestò sulla destra, con le quattro frecce che puntavano una non direzione.
«È questo?» chiesi. Era il mio primo hotel, lo confesso, ma stava all’opposto dell’immagine che m’ero costruito. Pensavo a fiori, grandi insegne e porte girevoli. Certo, magari pescavo da qualche film passato alla televisione, e a conti fatti era quasi gennaio, ma il nostro palazzo era davvero una merda. Alcune tapparelle, azzurre molti anni prima, erano rotte, calate come ghigliottine sui balconi e l’intonaco era dipinto di un giallo sbagliato. Sembrava una noce in un cesto di mele rosse.
Mamma stava lì a guardare con me, la sua faccia era un divieto d’accesso. «Sì, tesoro. Avanti, prendi il tuo regalo» disse, e mi sorrise male.
Pensai provasse colpa, che il mio scarso gradimento l’avesse offesa. Lei di lavoro badava alle vecchie del quartiere, quelle con le gambe a parentesi tonda oppure stese a letto che parevano morte, per cui non poteva permettersi l’hotel col maggiordomo che ti apriva la porta.
«È carino, Mamma. Sono così contento» dissi, e giuro che finsi perfettamente.
«Su, entra che io vado a parcheggiare» rispose lei senza tono.
Scesi e corsi velocemente al portabagagli, perché fuori il vento fischiava come l’ultimo giorno della terra. Aprii il portellone e, mentre saliva, gustai con gli occhi il regalo di natale. Era rossa e con troppe cerniere la mia prima valigia, gonfia di vestiti. Tirando come un somaro la trascinai fino al finestrino: era chiuso.
«Ti aspetto qui?» gridai a Mamma. Mi guardava.
«No, tesoro. Entra tu, io arrivo subito.» Ma più che udirlo glielo lessi sulle labbra. Poi, senza darmi la possibilità di replicare, aggiornò le frecce, puntando a sinistra, e riprese la marcia.
La vidi fermarsi poco più avanti, di fronte al rosso di un semaforo.
Io entrai, faceva freddo lì in piedi. Salii i tre gradini che portavano alla porta di vetro, ma non di quelle automatiche, questa aveva la maniglia. La hall era sputata all’ingresso della scuola dove andavo tutti i giorni. Bacheche straborde d’appunti, circolari e disegni tremolanti di bambini.
Mi portai al bancone, ricordo fosse alto, di un legno insensibile e azzurro vomito. Una signora dai capelli grigi a fungo mi guardava da dietro un vetro come avessi grosse antenne verdi in testa. Dissi: «Salve, abbiamo prenotato una stanza».
Lei mi sorrise, disse: «Certo, tesoro. Ora chiamo qualcuno.» Poi prese il telefono, digitò pochi numeri e parlò velocemente coprendosi la bocca con la mano.
Sul muro a destra erano fissate alcune sedie di plastica, così mi avvicinai, trascinando la valigia come fosse la mia preda, mi sedetti e attesi Mamma. Era più facile beccare un ambo al lotto che parcheggiare in centro, almeno così diceva lei.
Da qui i ricordi diventano liquidi.
C’è una cosa che ricordo bene: il carrello che mi passò davanti. Lo fissai dal momento in cui entrò nella hall fino a quando scomparve. Era come se fosse una calamita e i miei occhi due biglie di ferro. Sul lato che potevo vedere, stampato a caratteri di un blu disperato, stava scritto: “Orfanotrofio S. Luca”.
A quel punto, nonostante non fossi tra i primi della classe, ogni cosa divenne chiara. Finalmente ce l’avevo anch’io qualcuno da piangere, per cui valesse la pena spendere lacrime. Perché è così che le chiamai inizialmente: lacrime. Erano calde di rabbia, annodavano la gola e bruciavano le guance. Ma ora, dal lato opposto della felicità, la vedo in modo diverso.
Furono solo acqua salata.
_____
di Matteo Monco

L’opera “Acqua salata” si è classificata come finalista nella Sezione Racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca” – Edizione 2010.

spacer

Leave a reply