L’UOMO DI VETRO

(Il posto giusto)

E’ disteso. Braccia aperte. La faccia è una medusa. Grigia, sfatta al sole già caldo che sbircia da un soffio nuvoloso. Quella sua camicia lilla, aperta fino all’ombelico. Il ventre è una sorta di bisaccia perlacea dove tra i fili bianchicci dei peli si annida un putridume di licheni. Le braghe strappate al ginocchio. Braccia aperte e un pugno chiuso con dentro un’alga rossa.

L’uomo di vetro, adesso, pare l’uomo d’acqua. Così gonfio, livido. Il mare gli esce da ogni poro. Mio nonno corre verso la sua casaccia stralunata dalle tempeste, messa su da suo padre una cinquantina d’anni prima: due stanze e un terrazzo sopra un’altura rocciosa che si eleva porosa, muschiata e distante dalla riva sì e no trenta metri. Col mare grosso, quel rudere sbilenco, pare dover sparire da un momento all’altro. D’inverno scendo dal paese ogni sabato, per venire a trovare il vecchio. Ogni volta che arrivo in prossimità del litorale, stringo gli occhi per vedere meglio. Poi sospiro rincuorato. La vedo distinta già dalla Nazionale che sporge sulla scogliera, quell’ammasso di pietrame. Di volta in volta, strada facendo, mi frulla in testa la stessa cosa: questa volta non la trovo più. Sì e no quattro pietre, trovo. E di mio nonno, quello che granchi e gabbiani hanno lasciato. Le ossa sparse, bianche e cave, tra uno scoglio e l’altro. Ma è sempre li, indenne, la casaccia e lui, già a riparar reti accosciato sulla sabbia. Secco e curvo come un arco. La pipa spenta, di traverso, sulle labbra ingiallite come quei pezzi di sughero che capitano tra i piedi mentre costeggi il mare. Il berretto alto sulla fronte smangiata dal sole e dalla salsedine. L’occhio allungato. Blu come il suo mare.

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Sono solo con quel che resta di questo poveraccio ai miei piedi. Mi prende una paura irrazionale, cretina e vedo con sollievo mio nonno uscire da casa correndo sulle gambe da trampoliere. Il berretto vola via e s’arruffa, sugli occhi, un ciuffo di capelli attaccati al cranio dall’umido del mattino. Sembra un vecchio airone dalle piume strapazzate dal vento. Ha tirato via dal letto la traversa di lana tessuta a mano ed è tornato a questo povero diavolo scaricato dalla marea. Uno che era sparito da qualche giorno. Uno che nessuno conosceva a fondo. Beh, neanche il mare se l’era tenuto, se l’aveva riportato nello stesso luogo da cui era partito. Solitario triste e muto come sempre, su quella barchetta squinternata. Non era dei nostri. Un forestiero capitato chissà come. Aveva piazzato il suo camper in un campo abbandonato. In paese si vedeva di rado. Comprava poca roba da mangiare e grandi confezioni d’acqua. Era secco e bianco, malgrado la vita randagia. A fior di pelle, le vene si dipanavano in un serpaio azzurrognolo. Sembrava davvero trasparente. Azzeccato, quel nomignolo: l’uomo di vetro.

Mio nonno mi fa cenno di un segno di croce. Poi, secco:

-Sagli o paes. Chiam i carabinier ca si chistu povr disgraziat staje ancor cà, su mangin auciedd. (Sali al paese. Avvisa i carabinieri, che se questo povero disgraziato resta ancora qui, se lo mangiano gli uccelli).-

Io ho lo stomaco che macina come il ventre di una mucca. Non ho mai visto un morto. Figuriamoci uno sputato dall’acqua dov’è rimasto giorni e giorni. Farfuglio un requiem e volo via come se avessi un diavolo attaccato al culo.

*****

Ho un nome. Come tutti. A volte, lo dimentico. Non mi chiama nessuno. Da anni. Per un certo periodo, ero io stesso, a chiamarmi. Poi ho detto basta. Ho preferito restare solo. Chiamandomi, era come avere qualcun altro accanto.. Ed io non voglio nessuno tra i piedi. Volevo stare solo anche da piccolo. Mi sorprende, spesso, la memoria a quei giorni: secco e lagnoso. Mi smoccola il naso. Ho freddo. Ho caldo. Ho fame. Uno scappellotto di mio padre. Una preghiera all’ombra di un lume, con la faccia di mia madre a un soffio dalla mia. Il sapore di caffè, latte, fritto e sugo che filtra dai suoi panni in un’accozzaglia teneramente familiare, tiepida. A volte, la memoria, lascia percorsi facili. S’inoltra oltre certi intrichi, sguscia via come una biscia da quei complessi labirinti che ho pazientemente costruito.

Mi vedo in una confusione di facce e strade, alberi, monti, laghi. Un flash: io, che apparentemente sopravvissuto alle crepe del cuore, imparo a misurarmi con un me stesso. Sono un estraneo vacuo e ottuso. Faccio mangiare piccioni dalle code nere. Stendo i calzini sui rami sterili di un pesco. Bivacco sulle rive di un fiume di chissà quale città.

Guardo quella donna. Ha capelli fini e chiari. Li attorciglia con le dita. Un ciuffo, se lo mette tra le labbra.

Tutto il tempo che mi fermai su quel fiume, la sbirciai. Era una che abitava sull’altra sponda. Una palazzina verdastra. Lei si affacciava, rientrava, lasciava le persiane aperte. C’erano troppe finestre, in quella sua abitazione ed io vi entravo con i miei occhi come un topo d’albergo. Cucinava per una famigliola stretta, silente. Spazzava. Si spogliava. Io sempre lì. Non era neanche bella. Più di lei, mi drogavano quei gesti consueti. Quell’eco di famiglia che mi devastava le vene.

Ripartii.

La mia vita è tutta qui: Un continuo partire. Un continuo cercare…

Certo, bisognerebbe parlare del “prima”. Di quel tizio allampanato con uno straccio di laurea in matematica. Quello che i ragazzi, al liceo, chiamavano “Il professorino”. A quarant’anni ne mostravo ancora venti. Duro, farsi rispettare! Mi piaceva, però, insegnare. Mi piacevano, quelle piccole canaglie.

Poi, accadde. Lei. Lei. Lei….Il matrimonio.

Mio figlio.

La vita era un caleidoscopio. Colori, luci, mi scoppiavano negli occhi. Nel cuore.

Qualcuno, poi, spense la luce.

M’è rimasto, nella pelle, l’odore della mia donna e di mio figlio.

Negli occhi ho ancora lamiere accartocciate.

Viaggio. Viaggio.…da circa vent’anni, non faccio altro. Cerco.

Quando sono arrivato qui, in questa terra del Cilento ho capito.

La gente ha facce con una lampadina dentro. Il paese ha un sole inchiodato a una volta che più azzurra non si può e un altro sole sotterraneo, segreto, sguscia tra le crepe dei muri, tra la corteccia di un albero, dal calice di un fiore. C’è un sole- girasole anche nelle strade. Tondo. Frastagliato da ombre di case con gerani a grappoli.

Mi guardano di traverso, gli altri. Parlottano. Non lo sanno, ma mi amano. Se ne accorgeranno quando non mi vedranno più gironzolare scarmigliato ed esangue tra i vicoli.

Io li ho scelti. Ho scelto questo luogo. Non posso immaginarne uno di più straordinariamente bello. Bello oltre le cose terrene. Oltre se stesso.

E’ stato un mattino, giungendo dall’alto di un percorso. Poco più di una mulattiera. Scesi dal camper inerpicandomi per la straduzza, tra rocce e slarghi. Iberis, euforbia, lentisco, mirto, rosmarino, annegavano i polmoni. E c’era azzurro e verde ovunque, in quell’ora che si affacciava come una puttana spettinata, al giorno. C’era verde sulla punta dei monti abbastanza vicini da coglierne la pienezza dell’alto fogliame. Verde inerpicato a rocce, lungo i sentieri, per sterpaglie, boschetti, per radure che il sole non mangiava. L’azzurro era il mare. E oltre. Era sui tetti accucciati, storti delle case, quell’azzurro. Era sui vapori di lenzuola stese al vento, sulle facce dei bambini.

Sospirai forte. Chiusi gli occhi. Ingoiai quel mondo. Ogni particella del mio corpo, ne fu colma. Erano in me, finalmente, ogni spicchio di cielo, ogni mutare di soli e lune, ogni goccia di mare. Quella scia di luna sul respiro dell’acqua. Quella barca con la sua stella di luce nello sciabordio dell’onda rossa al tramonto, Quell’insenatura dove tramutava la sabbia in cristallo ed era specchio d’anima, occhio rifrangente di un Dio d’infinita pace.

E’ questo, il posto. Il posto dove rinascere. Dove morire, pensai.

Volevo gustarlo in fondo, quel mondo. Rubarlo. Nasconderlo. Portarlo con me, negli abissi di cristallo, tra ippocampi, razze e rane pescatrici. Era il principio e la fine di ogni cosa poiché nulla al mondo, poteva appagarmi più di tanto. Il mio compasso aveva raggiunto l‘ultimo tratto.

L’avevo trovato. Ci avevo messo quasi vent’anni. Ma l’avevo trovato.

Sì. E’ questo il posto giusto, l’unico, dove rinascere e dove morire.

*****

di Maricla Di Dio Morgano

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“L’UOMO  DI  VETRO” ha partecipato all’edizione 2011 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”.

 

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