NEI RICORDI DI MIO PADRE

“Ho villeggiato in Germania”, sempre ripetevi, e lo dicevi con un tono che sembrava credibile, per una bambina incapace ancora di cogliere l’amara ironia della tua voce.
Cominciava sempre così l’onda dei tuoi ricordi quando mi sedevo accanto a te e ti chiedevo col tono perentorio tipico dei bambini: ”Papà, racconta”.
“Ho villeggiato in Germania due anni”, ed io sapevo già che dalla tua voce sarebbero uscite storie incredibili che mi avrebbero stupita e appassionata più di qualunque altra favola.
Quando ti chiedevo :”Papà racconta”, non ti sei mai azzardato a raccontarmi le solite favole dei fratelli Grimm, di Andersen…no, nella tua mente non c’era posto per le finzioni, o forse le avevi dimenticate o forse mai nessuno te le aveva narrate.
La tua mente era comunque troppo piena e affollata di ricordi che ti avevano lasciato segni profondi nel cuore e nell’anima, segni tracciati col sangue su tutti i pori della tua pelle.
Io ero ancora troppo ingenua per capire che l’uomo spesso è talmente ingordo da divorare tutto, anche altri uomini come lui, e questo solo per la bramosia di potere; ero troppo piccola per capire come mai non tutte le storie potessero terminare con un “e vissero felici e contenti” (erano quelle che invece mi raccontava mia madre).
Eppure intuivo che le tue storie appartenevano ad un mondo in cui eri realmente vissuto da protagonista, dove tu eri il “cappuccetto rosso” che il lupo cattivo avrebbe voluto sbranare, ma che alla fine eri riuscito a ritornare a casa sano e salvo. E così eri pronto, accanto a me, a regalarmi i tuoi terribili ricordi dei due anni di prigionia in un campo di concentramento tedesco, addolcendoli e stemperandoli con l’amore di padre per non turbarmi.
Mi dicevi che, nonostante le difficoltà, avevi una relativa libertà, perché tu non eri un ebreo, ma solo un prigioniero di guerra italiano (e quindi traditore), ma sempre trattato meglio di altri e pertanto con maggiori possibilità di sopravvivenza.
Sei stato fatto prigioniero il 9 settembre del 1943, a Bologna, nella caserma dove prestavi servizio: avevi 22 anni e quel giorno hai avuto la certezza che la cattiva sorte ti avesse voluto dare tutti i suoi baci in fronte.
Infatti molti dei tuoi commilitoni erano riusciti a fuggire attraverso un tombino che conduceva alle fognature e probabilmente sfuggirono alla deportazione.
Ma tu avevi un’infezione all’alluce; mi dicevi che avevate scarpe durissime, pesanti e che vi bendavate i piedi per proteggerli ed evitare che la pelle si piagasse. E forse per questo ti venne quell’infezione che ti fece gonfiare il piede procurandoti tanto dolore e una febbre talmente alta da dover stare in infermeria.
Così quando vennero a dirti che tutti stavano scappando perché i tedeschi non erano più nostri alleati e che nessuno più governava la caserma, non avevi le forze per scendere da quel tombino che ti avevano indicato, ignaro di come la tua vita sarebbe cambiata a causa di quella sfortunata coincidenza.
Infatti da lì a poco arrivarono i tedeschi che ti fecero salire su un camion ed ebbe inizio la tua inaspettata e atroce avventura. Ti portarono nello M-Stammlager IV G. ad Oschatz, in Sassonia, e successivamente a Wurzen.
Sono tanti gli episodi che si affollano nella mia mente, sicuramente ricordati monchi, di quei due anni trascorsi tra la fame (mangiavi, nella più rosea situazione, le patate crude con tutta la buccia seppellite come scorta segreta sotto la neve), il freddo, il durissimo lavoro nella fabbrica, il dolore per non poter dare tue notizie a tua madre. Lei viveva sola a Poggioreale, internato paese della Valle del Belice (tuo padre era emigrato in Australia), senza altri figli all’infuori di te; eppure so che non ha mai smesso di pregare e di sperare che tu saresti tornato.
Ma tra tutti, due sono rimasti indelebili nella mia mente.
Uno me la raccontasti quando ero più grandicella, e fu l’unica volta che vidi nei tuoi occhi rabbia e odio.

Tu, insieme ad altri prigionieri, stavi spalando neve, quando a pochi metri di distanza passò una carovana di poveri disgraziati ebrei, estenuati per il massacrante viaggio e disperati, perché non sapevano cosa ne sarebbe stato di loro. Una donna con in mano un bambino di pochi mesi inciampò e cadde. Un soldato tedesco cominciò a urlare e a spintonarla col calcio del fucile, ma lei non riusciva ad alzarsi, impedita anche dal bambino che strillava come un ossesso.
Allora il soldato tedesco afferrò il bambino, lo lanciò più in alto che poté e gli sparò…giocando al bersaglio umano.
Mi hai solo detto che dopo lo sparo hai voltato la testa e hai vomitato, sulla neve bianca, tutto il fiele che avevi in corpo. Hai continuato a vomitare e spalare fino a quando hai capito che erano state cancellate le tracce di tutto ciò che era successo. Una sola volta me lo hai raccontato…ho capito che ripeterlo non sarebbe servito a nulla, se non a far morire ancora una volta quell’innocente davanti agli occhi della tua mente.

L’altro ricordo riguarda la tua fuga dal campo di concentramento.
Si era sparsa con la velocità del lampo la voce che i tedeschi avevano perso, che si arrendevano al nemico e che gli americani erano alle porte. Nessuno più vi sorvegliava: eravate stati abbandonati al vostro destino. Il tempo di organizzarti con altri compagni, raccogliere quei pochi stracci che avevate, con in mano una carta geografica recuperata in fabbrica e iniziaste il lungo rientro. Con te c’era anche il tuo carissimo amico conterraneo Salvatore (ho avuto il piacere di conoscerlo), il quale si fidava ciecamente di te perché eri più volte scampato miracolosamente a pericoli seri e quindi pensava che lassù, nei piani molto alti, qualcuno ti volesse davvero bene.
Siete partiti da Wurzen il 17 aprile 1945 e siete arrivati a Vienna a giugno, tra mille avventure e disavventure, vivendo di espedienti. Durante il tragitto vi toccò di attraversare un campo incolto, circondato da filo spinato. Ancora poco e sareste entrati in Austria.
Mettendo a tacere la stanchezza e la spossatezza di quegli ultimi giorni, ti sei aperto un passaggio nel filo spinato e sei entrato nel campo, seguito dal tuo amico. Cominciavi ad assaporare l’aria di libertà e la speranza quasi certa di poter raggiungere prima o poi la tua casa, tua madre, di riprendere la tua vita nelle mani là dove era stata interrotta, magari riprendere gli studi, o cercare un lavoro.
Ormai mancavano pochi metri alla fine del campo, quando ti fermasti a leggere uno dei cartelli disseminati ma a cui non avevi fatto caso per la premura di scappare.
C’era scritto in tedesco “campo minato”: avevi imparato quella lingua che odiavi quanto bastava per districarti nella difficile quotidianità.
Ti sei bloccato impietrito, mentre le tue tempie martellavano per la paura: avevi percorso correndo un campo minato rischiando di saltare in aria da un momento all’altro, eppure eri rimasto vivo.
Ti restavano solo pochi metri, ma la paura che il destino beffardo potesse ancora una volta tirarti un brutto scherzo ti faceva tremare e ti bloccava. Fu stavolta il tuo amico ad intervenire: ”Pietro, tu hai qualche santo particolare lassù che ti protegge; non fermarti, cammina, manca poco, vedrai che non ti succederà niente ed io metterò il piede dove lo metti tu, perché mi fido della tua fortuna”.
Improvvisamente ti sei sentito responsabile anche di quel caro amico che si abbandonava a te, e così ricominciasti a camminare, ma stavolta lentamente, poggiando un passo dopo l’altro al rallentatore, scrutando il terreno come se i tuoi occhi potessero avere i radar speciali per scoprire dove erano state interrate le mine.
Ti sembrò quello un tempo infinito, eppure dovevi percorrere solo pochi metri. Ma alla fine hai raggiunto l’altro filo spinato e…la libertà.
Sei rimasto più di due mesi a Vienna in un campo di smistamento sotto il comando delle forze russe. Ad agosto sei stato inviato a Verona e finalmente, a settembre, sei tornato in Sicilia.

Poi sono cresciuta e tu non mi hai più raccontato le tue storie e io non te le ho più chieste perché crescendo ho studiato quella Storia di cui anche tu sei stato sconosciuto e anonimo protagonista e avevo capito che rievocare quei pezzi di vita ti procurava troppa sofferenza, perché ci sono ferite che né il tempo, né gli affetti più cari, riescono a rimarginare totalmente.
E un giorno sei andato via quasi all’improvviso e comunque per me sempre troppo presto; e non ho potuto scrivere con ordine e completezza le tue storie affinché diventassero memoria nei tuoi nipoti e per chiunque le avesse volute leggere. Non ho più potuto dirti: ”Papà, racconta”.

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di Palma Civello

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“NEI RICORDI DI MIO PADRE” ha partecipato all’edizione 2011 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”.

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