Carmela

Arrivava sulla spiaggia prima del sole. Era un ragazzo, figlio di pescatore, di nome Nino. Abitava, con la famiglia, una casa che guardava il mare, in un paesino situato su un punto alto della costa. A settembre, pochi frequentavano la spiaggia, e il vento notturno cancellava le orme dei rari bagnanti del giorno prima.

A quell’ora del mattino, quasi sempre, il mare riposava pigro, quieto e silenzioso, levigato e ricoperto da un immenso velo d’argento. Nino non poteva credere che potesse fare del male ad alcuno.

Sulla sabbia ritrovava soltanto le tracce delle zampette dei gabbiani, che arrivavano ancora prima di lui. Guardava con tenerezza l’impronta a tre dita, che si ripeteva identica, in un percorso disordinato, a zig-zag; vi leggeva la cura nel loro andare in cerca di minuscoli crostacei, l’inizio di un’attività che continuava sul mare, tutto il giorno.

A piedi nudi, lasciava le sue orme sulla sabbia; primo, in quel mondo che si rigenerava ogni giorno, e che rimaneva intatto, finché non arrivavano altri a godere gli ultimi giorni di mare che la buona stagione ancora regalava.

Dal punto in cui era sceso sulla spiaggia, camminava per un centinaio di metri, fino a raggiungere alcune barche di pescatori, tirate a secco. Andava a trovare, ogni volta, quella con la scritta ‘Carmela’, dedicata, com’è usanza dei pescatori, alla madre, e che Minicu, suo padre, aveva ereditato con quel nome. Stava lì, ferma, da quel giorno… quando, un anno prima, tradito dal mare che amava, quella volta in tempesta, non fece più ritorno a casa.

Giorni dopo, sulla spiaggia, qualche chilometro più a sud, il mare cominciò a restituire, poco alla volta, quello che non era riuscito a inghiottire: la barca, piena d’acqua ma intatta, l’albero di legno in parte spezzato, con ancora attaccata l’antenna e la vela lacerata, il timone, i due remi che Minicu legava insieme tra loro e, misteriosamente, il suo berretto da marinaio, che galleggiava ancora all’interno di essa. Non la rete, né l’ancora, andata a fondo, né la barra del timone, né tutti gli altri attrezzi da pesca… Né il corpo dell’uomo.

Nessuno volle pensare alla verità sulla sua fine.

Adesso, con i due grandi occhi dipinti sulla prua, ‘Carmela’ stava, a pochi metri dalla riva, a guardare il mare che le aveva strappato il padrone, e sembrava in attesa di vederlo ritornare da quelle acque.

Il ragazzo guardava la barca, ne osservava il fondo, all’interno, e rivedeva i piedi scalzi del padre, le sue mani che armeggiavano con gli attrezzi da pesca, quando si preparava ad uscire in mare… Poi andava a prua, sedeva sulla sabbia e, fissando ‘Carmela’ in quei grandi occhi, sottovoce le sussurrava:

“Se quella volta fossi stato con lui, forse…”.

Quanti pensieri venivano alla mente di Nino… quante volte avrebbe voluto rimettere in acqua la barca e far rivivere almeno essa.

A sette anni nuotava come un pesce.

Ne aveva otto, quando Minicu lo portò con sé la prima volta, a pesca, con mare tranquillo; spesso anche di notte, a pescare con la lampara. Il ragazzino rimaneva sempre affascinato dalla scena di quelle luci che galleggiavano sull’acqua, e pregava il padre di portarcelo ancora.

“Voglio fare anch’io il pescatore da grande,” gli diceva entusiasta, a quell’età, “mi piace andare su questa barca, mi piace il fruscio del vento nelle orecchie e, quando la vela ci fa volare sull’acqua, vedere la prua che si fa strada tra le onde, sollevando spruzzi di mare… soprattutto, poi, quando facciamo ritorno con la barca piena di pesci.”

Minicu, sapeva quant’era dura la vita sul mare, e cercava di spiegargli che esso non è sempre come lo ricorda chi lo ha percorso col tempo buono: una volta sembra amico, ma un’altra, nemico; per questo va sempre trattato con rispetto e prudenza:

“E’ mare” gli diceva, “amalo, non pretendere di essere ricambiato, e non lo sfidare, mai!”

Crescendo, il ragazzo era diventato esperto nel portare la barca con la vela latina, riconosceva tutti i venti e ne sapeva i nomi, di quelli tranquilli e di quelli infidi, dalla natura selvaggia; anch’essi, da affrontare guardinghi, come il mare.

Dopo la scomparsa del padre, egli non dimenticò le sue parole: “E’ dura la vita di un pescatore”. Con rimpianto, seguì il suo consiglio, si dedicò allo studio, e dimenticò la pesca, ma non il mare.

Nello scantinato sotto casa, dove Minicu custodiva reti, arpioni, vele, remi di ricambio e tutte le altre attrezzature necessarie per la pesca, Nino conservava i resti della barca, che il mare aveva reso: per primo, isolato da spazio intorno, dentro una grezza cornice di legno, il berretto del padre; seguiva, assicurata a una parete, l’antenna di legno, con ancora attaccata la vela, in brandelli, così come fu ritrovata; accanto, l’albero spezzato e il timone. Mancava la barra, andata persa, assieme alla rete, l’ancora e tutto il resto. I due remi recuperati, campeggiavano, a parte, sulla parete. Li aveva disposti a formare una croce, a ‘X’. A essi, aveva voluto dare, così, un significato particolare, di chiusura. Davanti a quei due legni si soffermava tutte le volte, quando, dopo aver guardato gli altri cimeli, faceva scorrere le mani sulle loro impugnature lucide, che gli mormoravano del padre, di quando le levigava con il continuo lavorìo delle mani su di esse, allorché, in mancanza di vento, era costretto a rientrare a forza di braccia.

Un mattino, sceso sulla spiaggia, come faceva spesso, e non solo d’estate, si era diretto verso ‘Carmela’. Per la prima volta, qualcuno era arrivato prima di lui: vide infatti, sulla sabbia, orme di piedi, scalzi, leggeri e piccoli, forse di ragazzino o di donna. Le osservò: esse non seguivano la linea della battigia, se ne scostavano, invece, di alcuni metri, puntando verso l’interno, in direzione della barca di Minicu. Le seguì, camminandovi accanto, a passi lenti, fin quando terminarono, proprio sotto la scritta ‘Carmela’.

Nino girò tutt’intorno alla barca, ma non ne trovò altre. Vi entrò, esplorò attentamente l’interno, ma non vide alcun segno lasciato da un intruso.

Altre volte, nei giorni successivi, si ripeté lo strano fenomeno. Pensò a uno scherzo dei suoi amici. Un dubbio, però, gli restò insoluto, allora: come faceva, chi era arrivato fin lì, a ritornarsene senza lasciare altre tracce dei suoi piedi? Lasciò passare del tempo: di sicuro, chi aveva fatto lo scherzo si sarebbe stancato.

Sempre prima del sorgere del sole, giorni dopo, ritornò sulla spiaggia. Il cuore gli batteva; egli presagiva quello che immancabilmente apparve ai suoi occhi: le impronte erano di nuovo lì, e portavano alla barca. Capì che non era uno scherzo.

Mancava un’ora all’alba, ed era ancora notte, quando ritornò lì. Si avviò verso la barca, seguendo un percorso diverso. Raggiuntala vi salì dentro e si stese sul fondo, sotto un cielo pieno di stelle. Non le aveva mai guardate così: catturato dal loro scintillio, iniziò a vagare lontanissimo col pensiero. Ce n’era una, in particolare, che brillava più di tutte e, con uno scintillio intermittente, richiamò la sua attenzione. La guardò a lungo e ricordò che, quand’era bambino, sua nonna spesso gli ripeteva una credenza popolare, tramandata di generazione in generazione:

“Quando lasceremo questa terra, chi continuerà a ricordarci con amore, osservando il cielo stellato, potrà continuare a parlarci attraverso i sentimenti. Scrutando tra le stelle infinite, trovi quella che sta aspettando il suo messaggio. Ogni stella brilla per richiamare l’attenzione dei cari ancora in vita, per invitarli a dialogare. L’amore li guiderà a trovarla.”

Nino sorrise.

Cominciò a schiarire; la luce delle stelle sbiadì, fino a confondersi nel cielo. Gli giunse, finalmente, una voce femminile:

“Stai aspettando me?” Nino si rizzò e vide lei: rimase a lungo a fissarla, impietrito.

La donna aveva qualcosa di misterioso, nel volto senza età: i tratti scolpiti di un prototipo, dal quale sembrava derivare la fisionomia di tutto il genere femminile, e che racchiudeva la bellezza di tutte le donne, di tutti i tempi.

Il ragazzo sentì il cuore battere veloce, e non trovò parole. Continuò lei:

“Tu sai portare questa barca, ti piacerebbe rimetterla in mare?” Il cuore di Nino, adesso, si mise a battere forte ma lento, sembrava prossimo a fermarsi.

“Chiudi gli occhi e pensa a tuo padre, a quando andavi con lui per mare.”

Ubbidì, catturato da quella suggestione.

Non appena l’immagine di Minicu si formò nella sua mente, avvertì che la barca cominciava a muoversi. Sollecitato dal suo dondolio sul mare, riaprì gli occhi, senza attendere che fosse lei a dirglielo. La donna stava ritta, a prua, col volto proteso al vento; la vela era spiegata e la barca fendeva sicura il mare. Lui stava al timone.

“Dove andiamo?” le chiese.

“Tieni la barra, ‘Carmela’ conosce la rotta.”

Passò del tempo? Si erano allontanati di molto dalla costa. Improvviso, prese a soffiare un vento fortissimo, il mare cominciò ad agitarsi, onde altissime sballottarono la piccola imbarcazione.

“Non avere paura! Reggi forte il timone, io allento la scotta!” Era la voce di Minicu. La donna era scomparsa, e anche dalla mente di Nino. Suo padre, pur agitato, cercava di mantenere la calma. Fissò la scotta a una galloccia e corse a poppa. Prese lui il timone. La barca per un po’ rispose ai suoi comandi.

“Va’ alla vela e ammainala, presto!” urlò al figlio, che tentò di eseguire il comando, ma la vela s’imbrigliò e si strappò. La barca era ormai abbandonata a se stessa, in preda a elementi scatenati, come mai, il povero Minicu, ne aveva visti fin’allora. Corse lui, per tentare di liberare la vela, ma, proprio in quel momento, un colpo di vento, spezzò l’albero, che lo prese in pieno e lo gettò in mare. Il vento gli portò via il berretto, che teneva in testa. Pure Nino, che, disgraziatamente, si era trovato con una caviglia intrappolata dalla cima dell’ancora, affondò con essa.

Riapparve la donna; tornò la calma sul mare. Lei s’avvicinò al ragazzo e, sfiorandogli il viso con una mano, senza toccarlo, gli abbassò le palpebre:

“Tieni gli occhi chiusi per un istante ancora” gli disse, con voce suadente.

Nino, tornò in sé, ma era ancora sconvolto, quando riaprì gli occhi; il cuore sembrava prossimo a scoppiargli in petto.

“Io non ero con mio padre, quella volta!” Protestò, quando si ritrovò nella barca, sulla spiaggia, con lei davanti.

“Questa donna non esiste… mi sto ingannando…”

“Non è proprio così…” proseguì calma lei, avendo letto nel suo animo, “quello che hai provato, ti è stato suggerito dalla tua coscienza, che tu fin’ora hai sopito, cercando di rimuovere il rimorso di una colpa che non hai. Se anche fossi stato con lui, in quella tragica occasione, tuo padre non si sarebbe salvato ugualmente, e tu avresti seguito la sua sorte.

“Come puoi sapere tutto ciò, chi sei?” le chiese.

“Sono Carmela.”

Un piccolo spicchio di luce rossa intensa si affacciò all’orizzonte; presto si compose il disco smagliante del sole, prossimo ad arrampicarsi nel cielo.

Antonio Piazza

San Benedetto del Tronto (AP)

 

Il racconto “Carmela” ha partecipato all’edizione 2012 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca” nella sezione “Racconti a tema libero in italiano”.

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