L’illusione

L’altra faccia dell’isola del sole era buia e asfissiante. In cunicoli stretti e polverosi, una variegata umanità lavorava incuneandosi sempre di più nelle viscere della terra. L’arroventata terra siciliana sembrava attraversata da infiniti serpenti frenetici, bramosi di ghermire la loro preziosa preda. In tempi di povertà della gente, dei campi e dei pascoli, le miniere, li pirreri, crearono dal nulla una seconda Trinacria, molto diversa da quella solare e ariosa che pagine eterne hanno immortalato. Dal sottosuolo del piccolo borgo collinare di Santa Elisabetta si estraeva lo zolfo, unico materiale ricavabile dalla terra di una vallata un tempo conosciuta col suggestivo nome di Cometa, luogo in cui i lontani echi della storia si fondono in un tutt’uno con l’incanto del mito, dove antiche leggende avvolgono le ereditate memorie e dove passioni e tormenti popolano ogni cosa, in un intricato groviglio di emozioni e sentimenti.

In paese, già a partire dai primi anni del novecento, il lavoro in miniera coinvolse tante esistenze. Romanzi privati che giorno dopo giorno i minatori scrivevano con la penna del loro durissimo lavoro, intinta nell’inchiostro del sudore che imperlava i loro visi sempre più scavati. I figli lavoravano a stretto contatto con i padri, spesso proprio gomito a gomito, i nipoti carusi coi nonni. In pochi metri quadri, respiravano la stessa umida aria anche tre generazioni familiari. E tutto in ambienti dove la temperatura si poteva misurare a occhio, guardando la quantità dei vestiti indossati dai minatori, i quali entravano con scarpe, pantaloni e camicie, che poi inevitabilmente toglievano man mano che la profondità del tunnel, così come il caldo, aumentava, assieme alla vischiosa polvere che ricopriva i loro volti e i loro nudi corpi. Dentro quei cunicoli, le zolle di terra venivano colpite da potenti picconate e spesso lo scintillio causato dall’impatto del metallo con la roccia, come un lampo, illuminava l’affollata area di scavo, resa nebbiosa dall’incessante calpestio della terra. In quei luoghi e in quei momenti non c’era spazio per molte parole, quasi impossibile infatti pronunciarle senza impastarsi lingua e palato. Chi lavorava in miniera imparava presto a dosarle, utilizzandole solo in rare occasioni. In quegli spazi i suoni scandivano il volgere del tempo. Rumore di passi lenti, mescolato in un tutt’uno sonoro con quello dei picconi, usati per ampliare e prolungare le oscure e silenziose pareti, delle pale, adoperate per riconquistare al meglio gli angusti spazi, e infine dei pesanti carrelli di metallo, con cui il ventre della terra sabettese veniva a poco a poco svuotato del prezioso minerale giallo. Più si dilatava lo spazio all’interno di quelle gallerie sotterranee, minore era invece quello per i pensieri, che rappresentavano un vero lusso, del quale era meglio fare a meno. Troppo impegnativi erano i passaggi mentali per poterli formulare, soprattutto in una situazione di enorme sforzo fisico che rendeva la mente impenetrabile, come le pietre che lì si cercavano ed estraevano. E troppo pericoloso era correre il rischio di distrarsi anche con un elementare ragionamento logico, che in tutte le altre occasioni sarebbe stato possibile o stimolante fare, ma che lì, in miniera, avrebbe potuto causare conseguenze tragiche e irrimediabili per se stessi o per gli altri, anche al minimo sbaglio. Non c’era spazio per le parole e non vi era neanche posto per le riflessioni silenziose, tutto azzerato. Il solo pensiero consentito, come un chiodo fisso, doveva essere quello di rimanere concentrati sull’ultima roccia paglierina appena vista, da percuotere al più presto e sottrarre alla parete. Queste le assenze che scandivano il ritmo delle giornate lavorative nelle pirreri. Il giorno era come la notte, avaro di chiarori e denso di tenebre. E così per dodici ore al giorno, tutti i giorni, sempre.

Fu durante l’inusuale e freddo inverno siciliano del 1920, quando nel profondo della miniera del Giammaritaru, durante una tranquilla giornata di lavoro nelle viscere del sottosuolo, alcuni minatori si accorsero, tra la curiosità che interruppe la monotonia degli scavi e il nervosismo causato da una situazione per loro nuova e imprevista, che l’ultimo colpo dato per sottrarre alla terra le ambite rocce rigate di giallo, aveva provocato qualcosa di inaspettato. Una strana esalazione cominciò a circolare pericolosamente tutt’intorno al punto di estrazione. Il tanfo era decisamente più insopportabile del solito, quasi da asfissia, e iniziava a presentarsi ai loro nudi piedi uno strano e scuro liquido, che stava ricoprendo l’intero pavimento terroso. Dapprima gli operai presenti rimasero sconcertati e allibiti, ma, immediatamente dopo, lo stupore lasciò spazio al terrore per quella che minacciava di trasformarsi in una situazione molto pericolosa, dalla quale, non capendo bene cosa stesse succedendo, allontanarsi il più velocemente possibile. Gli sguardi tra i compagni di lavoro furono fulminei, siciliani, fugaci ma intensi. All’inizio, per la necessità di parlare il meno possibile, si scambiarono veloci e taciturne intese visive. Ma il silenzio cominciava a essere  assordante. La progressiva espansione di quel liquido che stava coprendo i loro piedi, rendendoli invisibili, li indusse a lasciare immediatamente quel posto e a riparare in superficie. Risalirono tutti e alcuni, nella fretta e nel trambusto, scivolarono più volte cadendo per terra, ma rialzandosi subito dopo. L’aria frizzante del mattino li accolse e la tersa luce del giorno, cui a quell’ora non erano più abituati, rivelò loro che cosa li aveva così tanto spaventati. Mostravano negli occhi i segni del panico vissuto e i lineamenti dei loro volti tradivano ancora una fortissima tensione. Senza accorgersene si resero conto che fuori dal tunnel avrebbero potuto parlare senza particolari problemi, anzi avrebbero fatto bene a farlo per liberare i polmoni da quella ragnatela di polvere che opprimeva i loro petti. L’ultimo a risalire fu il capo squadra, al quale tutti gli altri guardavano con rispetto e ammirazione, conquistati grazie a più di vent’anni d’ininterrotto lavoro sotterraneo. Ogni giorno era anche il capo cordata e a lui spettavano, quindi, le decisioni da prendere. E anche quel giorno le prese. La luce gli si mostrò accecante e, con gli occhi ancora abituati all’oscurità, impiegò qualche secondo per mettere a fuoco le cose lì intorno. Tentò di esaminare i suoi piedi, li sentiva viscidi ma, ancora abbagliato, non capiva bene di cosa si trattasse, anche se il tanfo che sentiva lo aveva già allarmato. Poi, allentatasi su di lui la morsa della luce del giorno, controllò anche i piedi di tutti gli altri e alla fine, sgranando gli occhi, capì. Si ricordò che una volta, da carusu e inesperto minatore nel sottosuolo nisseno, era stato coinvolto in una situazione simile, che però, al solo pensiero di ciò che allora avvenne, compose nella sua memoria un quadro tragico. Pensò subito che lì, nella sua Sabetta, le cose invece erano filate lisce, senza particolari difficoltà, ma soprattutto senza tragici destini spezzati. Spiegò ai suoi amici, perché in quei luoghi anche le persone tra loro più diverse finivano con l’andare d’accordo, che la poltiglia scura che ricopriva e rendeva irriconoscibili i loro piedi era petrolio. Lo stupore fu enorme, da vertigine. Alcuni tra i più anziani dovettero infatti sedersi su qualche pietra o in terra per poter meglio reggere l’impatto che quella notizia ebbe nelle loro menti.

Lo stesso petrolio di cui tanto avevano sentito parlare i loro zii e i loro cugini emigrati nel nord Europa o in America. Lo stesso prezioso oro nero. Gli sguardi, incorniciati in visi che poco prima si erano distesi, stavolta tradirono incredulità mista a euforia. Non volevano credere a quello che il capo aveva loro riferito. Iniziarono subito a balenare nelle loro menti pensieri che mai avrebbero associato al loro piccolo paesino e alla loro umile condizione. Immagini fulminee. Pensarono a tutto ciò che la scoperta del petrolio avrebbe potuto comportare. Nei racconti che avevano sentito dai parenti emigrati, si descrivevano le ricchezze immediate che il petrolio era capace di creare. Sapevano che i luoghi della scoperta sarebbero diventati immediatamente conosciuti e che le nuove macchine industriali, che loro a Sabetta non avevano mai visto né immaginato, avrebbero iniziato a solcare le strade che essi stessi ogni giorno percorrevano e che nel frattempo sarebbero state risistemate e ingrandite. Una rivoluzione, se paragonate alle piccole e strette trazzere del paese, pensarono in molti davanti all’entrata della miniera, tenebroso rettangolo verticale attraversando il quale, giorno dopo giorno, sapevano di mettere in gioco i loro destini. Questi furono i primi pensieri che fecero. Immediati e accompagnati da altri più audaci e personali. Chi infatti possedeva dei terreni lì vicino, si vedeva già a scavare nel proprio piccolo fazzoletto di terra, alla ricerca del prezioso liquido che cambia la vita. Alcuni si immaginarono futuri proprietari di ricchi pozzi, ben vestiti, con scarpe lucide, col cilindro in una mano e un costoso sigaro nell’altra, come gli zii americani. Qualcuno ebbe anche il coraggio di esporre a voce questi pensieri e fu subito deriso dagli altri, ma senza particolare convinzione, tanto erano assorti nei loro sogni di ricchezza. Si ritrovarono lì a pensare, riflettere e fantasticare alla luce del sole, respirando aria fresca e pulita. Il petrolio, appena scoperto, sembrava aver già cambiato la loro vita. Tra gli impolverati minatori di Cometa vibrava un’atmosfera quasi onirica. La situazione, resa ancor più singolare dai loro silenziosi pensieri, era contraddistinta da confusione e spaesamento. Ma nel frattempo uno di loro, ripresosi velocemente, era già altrove. L’anziano capo squadra si stava infatti recando presso la casa del proprietario della miniera per comunicargli la novità del giorno e chiedere il da farsi. Anche se già sapeva e conosceva bene le risposte. Bussò alla porta ma, appena la aprirono, non entrò. Sudicio e sporco com’era, non volle lasciare il segno del suo passaggio. L’anziano possidente scese lentamente dal primo piano attraverso le scale e si presentò con un’elegante vestaglia. Aveva gli occhi ancora lucidi per il sonno, del quale era stato improvvisamente privato poco prima. Parlarono sull’ingresso, sotto un sole che stava cominciando a scaldare ogni cosa, quasi sentisse e provasse anche lui l’euforia del momento. Appresa la notizia, gli occhi del proprietario si accesero di una nuova luce, scintillarono e continuarono a essere lucidi, ma per la forte commozione che in quel preciso momento stava provando. Si sentì piacevolmente scosso, le sue labbra iniziarono lievemente a tremare, ma il suo sguardo fu attraversato da una fulminea inquietudine. Convennero che per quel giorno i lavori dovessero essere sospesi. Così infatti l’anziano ed esperto minatore, a richiesta, suggerì. E così si fece. Poco dopo, al punto che alcuni, distratti com’erano, quasi non si accorsero della sua breve assenza, ritornò dagli altri, i quali nel frattempo si stavano riposando sotto le ampie e generose fronde degli ulivi secolari che cesellavano il Giammariratu. Pur continuando a stare tutt’intorno l’area di accesso alla miniera, pensierosi, speravano di lasciarla già l’indomani, per dedicarsi ad altri affari, i loro affari. Fu loro riferita la decisione presa dal proprietario.

I giorni seguenti furono intensi e in paese non si parlava d’altro. Il via vai di gente furastera era ormai diventato un’abitudine per gli occhi dei sabettesi, che fino a poco tempo prima erano soliti vedere sempre e solo le stesse facce. I pensieri che i minatori fecero appena saputa la notizia, furono gli stessi che in tanti, durante quelle convulse giornate per il paese,  fecero. Forse in troppi. Ci fu anche chi, in maniera temeraria, contattò privatamente alcuni tecnici, conoscenti di parenti, che furono impiegati per studiare terreni e scrivere perizie, dove descrivevano quello che riscontravano. E probabilmente, il contenuto di quest’ultimi documenti fu identico a quello delle carte scritte dai tecnici chiamati dal proprietario della miniera del Giammaritaru, venuti appositamente da una delle capitali del petrolio siciliano, Gela. Ma il comprensibile e anche un po’ ingenuo entusiasmo generale fu in poco tempo fortemente ridimensionato dalla notizia che le trivellazioni e i sondaggi realizzati nell’intera area del piccolo borgo, avevano dimostrato la povertà e l’inconsistenza estrattiva della vena petrolifera sabettese, che infatti venne subito abbandonata per potersi meglio dedicare allo zolfo, unico e vero “oro” presente nel territorio. Il petrolio, nelle menti di tanti acquisì le sembianze di una chimera, nera, inafferrabile e irraggiungibile. Una pura illusione.

La delusione di chi aveva già previsto grandi affari e immensi guadagni fu enorme. Ancor di più per alcuni, perché le spese per le indagini sul campo non poterono essere coperte e si ritrovarono quindi inutilmente indebitati. La miniera del Giammaritaru, quella stessa dalla quale tutto ebbe inizio, fu subito riaperta. Si ripresero i turni, le pareti dei cunicoli continuarono a mostrare la loro monotonia, i carrelli ripresero la loro cigolante corsa, i passi degli uomini il loro lento incunearsi nelle profondità della terra. I picconi e le pale, col loro inconfondibile suono metallico, ricominciarono a scandire i tempi e i ritmi di vita di quegli uomini che, sempre più nudi e impolverati, dopo agitate notti insonni e lunghi giorni di sbornia da illusioni d’oro nero, ricordarono nuovamente a se stessi che in quel luogo sarebbe stato meglio non parlare e non pensare più di tanto. Non era cambiato nulla e ne ebbero la conferma proprio lì, tra la polvere asfissiante, il silenzio delle voci e i colpi sempre più forti di una tosse viscerale. Amare lacrime lentamente iniziarono a solcare alcuni visi impolverati, disegnando certe strane figure sulle guance. La vita è destino, meditarono contemporaneamente, come investiti dall’onda di un’unica e realistica riflessione comune. Ma così facendo, si resero conto che stavano pensando e lì, in quel luogo, non era mai un buon segno.

Antonio Fragapane

Il racconto “L’illusione” ha partecipato all’ Edizione 2014 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, classificandosi al PRIMO POSTO della sezione “Racconti a tema libero in italiano”.

spacer

Leave a reply