Il biliardino di latta

Sifilìtici, sifilògrafi, sifilòmani! Ma a chi poteva interessare più di tanto, un tempo, una scabbia, un’ impetigine, di fronte ai guasti del treponema? Ah i soggiorni nei sifilocòmi! Pochi rimedi, molte toccature: si tirava avanti sperando d’essere stati, ogni volta, sanati, come accadeva in uno dei quattro padiglioni d’angolo dell’Umberto I° dove, per entrarci, si doveva salire la scala.
Tutto, prima, stava di sopra, con una bella prospettiva forte! E pazienza per i sofferenti, i malandati.
Tutto, se possibile, se più nobile, veniva costruito in alto, e tutto doveva essere raggiunto con perdurante agognamento, come la cima impervia d’un santuario.

Gabriele ed io quella scala la conoscevamo bene.
Lì, in Dermatologia, avevamo seguito il Corso di Malattie della Pelle, e Gabriele poi c’era rimasto..
Fu per questo che una volta lo chiamai da Palermo perché visitasse mio padre.
“L’escrescenza sulla spalla l’è venuta dal cuore…”
“Dal cuore, professore?…”
“Si, dai fatti di cuore, dai dispiacere insomma… Lei non è riuscito a tenere sulla spalla il macigno d’una tristezza, e quella fioritura, là, proprio sulla spalla, è l’espressione evidente del conflitto psicologico…”
“Ma professore… non capisco… non ricordo nulla…”
“Pensi a qualche fatto recente… si sforzi… vedrà che ho ragione… Intanto le preparo il ricovero… Mi farò sentire io.”
Non appena m’arrivarono le battute si quel consulto pensai subito a una di quelle spiegazioni geniali, leggere, inventate anche, che il medico è chiamato a fornire all’ansia o alla curiosità di pazienti e familiari quando, di più solide, non c’è n’è o lui non ne sa.
Quella per mio padre mi sembrò davvero singolare, ma non riuscii a sorriderne più di tanto poiché il malanno s’era rivelato d’una certa serietà.

L’anno dopo, di passaggio da Roma, andai a trovare Gabriele in Clinica.
L’unica memoria che m’era restata di lui, vecchia di trent’anni, era il ricordo della sua assidua e sfortunata ricerca, fra i banchi di Porta Portese, di uno dei più bei giocattoli della nostra fanciullezza: il biliardino di latta, il calcetto con la pallina di ferro, piccola come quella dei cuscinetti a sfera, e i giocatori che tiravano indietro la gamba, e la portavano giù, di scatto, quando lasciavano andare la molla.
Questo era stato l’ultimo segno rimastomi della sua originalità, che però riconobbi subito quando m’abbracciò con una felicità d’adolescente maturo, strofinandomi addosso tutti i peli che la testa aveva liberamente prodotto e pervicacemente conservato.
Freud, Jung e successori popolavano in disordine la sua scrivania, dietro la quale riposava la bandiera della Cina Nazionalista con, accanto, la fotografia del Presidente Chang Kai-shek.
“L’agopuntura l’ho imparata là…” fece quasi sottovoce, portando l’indice indietro senza voltarsi.
Quindi accese il piccolo stereo e ci mise dentro, a basso volume, la voce dura e le melodie essenziali di Luigi Tenco.
“Raccontami di te!…” cominciò.
Molte furono le parole, molte di più i silenzi. Agganciato ai miei occhi, Gabriele sorrideva. Ma non era certo scherno, e a un punto non fu neppure indulgenza, solo contentezza. Prese allora a ridere forte, felice, felice per me: questo m’arrivava! E mi parlò di certi triangoli, uno in testa, uno invertito al centro del corpo…
“Tu ti salvi, ti salvi Riccardo!… Sei di quelli del cinque per cento… Il cinque per cento si salva… E tu ti salvi… Tu sei uno che si salva!…”
Ascoltò certi miei disagi, delusioni, scorse qualche mia ferita.
“Quelli che ci fanno male…”, riprese serio, “i malvagi… non sono estraneità… rigetti da ignorare… Ci sono anche loro nella vita… anche loro interpretano un ruolo… Anche loro sono un pezzo del Grande Spirito da dove veniamo… Allora, stai attento, siamo tutti fratelli… e di più!… siamo tutti uguali… Noi siamo gli altri e gli altri sono noi… Siamo tutti una Cosa sola… la stessa Cosa… E siamo noi stessi quelli che vediamo quando guardiamo gli altri… Lo capirai… Hai passato i cinquant’anni… Ci riuscirai… Tu fai parte del cinque per cento… Tu sei uno che si salva!…”
Diavolo d’un Gabriele! C’era tornato proprio alla grande sul palcoscenico dell’inconsuetudine! Le sue parole, però, traspiravano d’un che di bello, di buono, ma anche di sorprendente e misterioso.
Una straordinaria chiave di lettura della vita, magari già sentita nei credi di molte confessioni, ma che ancora una volta apriva tutti i fatti, e le loro spiegazioni, una serenità infinita.
Stavo cercando di comprendere il motivo e la pienezza di quelle affermazioni quando fui costretto a distogliermene e ad interrogarmi, invece, sul perché una signora con la forfora, entrata con discrezione nella stanza, dovesse avere fatto, in gioventù, qualcosa che Gabriele s’ostinava a rammentarle.
“M’hanno sempre detto ch’è una dermatite seborroica…”, spiegava la donna, “ Ma ora è parecchio che ce l’ho… da quando avevo diciott’anni… M’hanno consigliato di farmi vedere qui, da voi, a psicodermatologia…”
“E lei a diciott’anni cosa ha fatto signora?” l’incalzò Gabriele, quindi mise nello stereo un’altra cassetta. “ Senti questa Riccardo… Per un piccolo compenso un mio vecchio paziente registra su nastro libri, racconti… quelli che piacciono a lui o quelli che gli commissiona chi non ha tempo o voglia di leggere.”
“ Mi chiede cos’ho fatto a diciott’anni, professore?… E chi se lo ricorda?…”
“Ascolta, questa è la sua voce… Gradevole, no?”
La postulante s’era ammutolita, e guardava me senza il camice bianco, chiedendosi forse perché dovesse parlare di cose private davanti a uno sconosciuto.
“Non si preoccupi”, la rassicurai, “sono un medico anch’io…”
“Ci mette pure gli effetti quando registra…”, riprese Gabriele, “Li trova nei rumori della casa o li prende per strada…”
Si rivolse quindi alla paziente: “Lei a diciott’anni, signora, deve avere certamente peccato… commesso un errore, voglio dire…”
Mi guardò compiaciuto, sicuro d’aver azzeccato la causa di quel disturbo, senza neppure aspettare un cenno da parte della donna.
“… E ha avuto discussioni con qualcuno… discussioni forti!…”
La paziente arrossì, parve ritirarsi in se stessa.
“Senti questi suoni assieme alle parole?”, fece Gabriele incurante della poveretta, “S’è sicuramente avvicinato alla finestra!…”
“Anche lei professore!, inveì la donna, “Anche lei con la solita storia!… Col peccato, l’errore dei diciott’anni!… Ma quante volte ancora me lo dovrò sentire rinfacciare?…”
“E le frasi più profonde gliele senti nel petto… gravi… rotonde…”
“E quanto l’ho pagato quell’errore!…”
“… oppure chiuse, sole… come dette dentro uno stanzino…”
“Ho pagato perché non ho voluto abortire!…”
“… e allora, sullo sfondo, avverti immobile il silenzio della notte…”
“E ho pagato perché solo io… Lui no… L’uno non le paga mai queste cose!…”
“… ma quando la sua casa è viva, e lui ci parla in mezzo, vedi l’agitazione del mattino… la luce piena della giornata.”
“Però gli volevo bene… Non aveva mai avuto un trenino elettrico e lo desiderava…”
“E’ venuto da me quasi tre anni fa… Con certe sedute, certi colloqui, gli ho salvato la gamba che ormai era persa…”
“…e io il trenino gliel’ho comprato… il giorno dopo che ci siamo dovuti sposare!”
“Ora, se lo vedi, è proprio felice… Ma io non m’addormento sopra la guarigione, la contentezza d’un paziente… Ce ne sono tanti altri da riportare al gusto della vita…”
“Ma la cosa bianca che lui voleva da bambino, la madre non è mai riuscita a capire cosa fosse…E neanch’io!…”
“Senti… senti come la voce gli si spiega sotto le parole… come tiene su un racconto…”
“…e così non gliel’ho potuta regalare!…”
“…e come s’ascolta con piacere… E pure con comodità quando si è occupati in altre faccende.”
“Ma sono stata lo stesso una brava moglie…”
“Certo signora…”, tornò a parlare Gabriele riprendendo il suo tono deciso, “ma le si è arrovellato il cervello… Il conflitto s’è scatenato lì… in testa… e ancora oggi lei non l’ha risolto… E così è proprio in testa che c’è il segno della lotta… è la sua dermatite seborroica…”
La donna s’era ormai arresa, e aspettava di sapere cosa dovesse fare per il suo problema.
“Saluto il mio amico e sono da lei…” si scusò Gabriele uscendo con me per gli ultimi due passi nel corridoio.
“Parlami ancora di te…”,gli dissi “Il tuo lavoro, ho visto, è un po’ particolare.”
“Si, e a me piace molto… La gente ci crede, si convince, e così io posso aiutarla… Te l’ho detto, no?, che con la psicosomatica riesco pure a strappare qualche gangrena alla sega dell’ortopedico!”
“Certo che si stenta quasi a crederci!…”
“Il biliardino, però, non l’ho ancora trovato!… E credo che ormai non lo cercherò più… Il passato, molte cose, finisce con l’ingoiarsele per sempre!…”
Tornai in albergo a prendere la valigia: il treno per Palermo sarebbe partito da lì a qualche ora.

di Riccardo Ascoli
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Il racconto “Il biliardino di latta” si è classificato al primo posto della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009, con la seguente motivazione:

Sciacca, 1 Agosto 2009

“Il biliardino di latta”.
Con un linguaggio aperto, spigliato, moderno ed una sequenza narrativa articolata e interessante, l’autore riproduce momenti, riflessioni, personaggi che, pur muovendosi in spazi apparentemente irreali, intrigano, sorprendono.
L’ironia, a volte pungente, a volte blanda, intellettualizza un percorso che nasconde, ma non troppo, considerazioni che vanno oltre le parole e costituisce occasione di analisi, di introspezione, divenendo messaggio educativo.
Il racconto risulta decisamente originale nella trama e nel linguaggio e quindi meritevole di particolare considerazione.


Enzo Puleo
componente della Giuria del Premio

Al racconto “Il biliardino di latta” è stato anche assegnato il Premio Speciale “Vincenzo Licata” con la seguente motivazione:

Sciacca, 1 Agosto 2009

“Il biliardino di latta”.
Ne “Il biliardino di latta” si raccoglie a piene mani quel pizzico di salutare follia per la quale la narrazione, sposando immaginifico e reale, raggiunge livelli di intenso fascino che decisamente innamora.
La narrativa a giudizio unanime della commissione, è risultata la sezione più convincente.
Gli autori, sebbene con contenuti e modalità espressive diversificati per intensità e creatività, hanno saputo proporre storie capaci di interessare e di sorprendere.
Pensare una storia è relativamente facile, calarla su un foglio bianco diviene assai più complicato.
Lo scrittore deve essere ingegnere ed architetto nel senso che, posta una struttura, la trama, deve sapere, meravigliando il lettore, vestire tale struttura con fatti, personaggi, spazi nei quali tradurre, trasfigurandola, drammatizzandola, la realtà che, se riproposta tale e quale, oltre a divenire cronaca non è certo narrazione, non sorprende, non innamora.
Un linguaggio piano e scorrevole, una trama originale, le giuste coloriture, i giochi della fantasia ed un periodare analiticamente conseguenziale, in pari grado, costituiscono gli ingredienti per una prosa leggibile e godibile.
La parola è strumento importante senza la quale non c’è comunicazione. E perché la parola non venga sciupata è giusto che sia misurata, calibrata, mirata, rispondente, abbia un suo spessore, una sua valenza, riesca a riprodurre con le dovute tonalità fonetiche e con le giuste dosi di contenuto una strada di pensieri che, mentre concretizzano, esplicitano un mondo interiore individuale, quello dell’autore, universalizzano la portata di un messaggio che naturalmente deve espandersi ed essere assorbito, condiviso da chi legge.
Ed è sulla scorta di queste considerazioni che la commissione con obiettività ha cercato di valutare le singole proposte premiando quelle che più si avvicinavano a criteri di originalità, correttezza linguistico-espressiva, forza emozionale pianificazione del periodare.


Enzo Puleo
componente della Giuria del Premio

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