Sogni di un burattinaio

PALERMO – Erano più di trenta anni che Ciccio Ingrassia non recitava su un palcoscenico della sua Palermo, dai tempi della commedia musicale di Garinei e Giovannini Rinaldo in campo, dove Domenico Modugno l’ aveva voluto accanto a sé in coppia con l’ inseparabile Franco Franchi. Ma c’ è chi, come il tassista che ci ha portato al Teatro Biondo per assistere ad una delle repliche di Don Turi e Gano di Magonza, lo ricorda, ancora prima, fare la “posteggia” per strada con Franchi dalle parti della Vucciria, o esibirsi per la platea avanspettacolare del Golden e del vecchio Trianon. L’ occasione di tornare a Palermo, purtroppo senza Franco, gliel’ hanno offerta Mimmo Cuticchio e lo Stabile diretto da Roberto Guicciardini che ha prodotto questo lavoro imperniato intorno all’ Opera dei Pupi, scritto da Vincenzo Licata, 87 anni portati in maniera spavalda, ex-pescatore di coralli della marina di Sciacca e poeta dialettale abituato a far rimare le gesta dei paladini di Carlo Magno e “lu cantu di l’ amuri” con “la stessa immensità di lu gran mari”. Mettendo in scena ed interpretando Don Turi e Gano di Magonza come un doppio, l’ anima epica di Ciccio Ingrassia (il puparo Don Libirtinu), Cuticchio, discendente di una delle superstiti e più famose Famiglie d’ Arte siciliane, ha inzuppato abbondantemente lo spettacolo, come una “madeleine”, nei suoi ricordi personali. Ad esempio, la casa-teatro a metà strada fra la caverna di Mangiafuoco e una masseria del Sud che lo scenografo Fabrizio Lupo ha riprodotto sul palcoscenico, corrisponde in scala da illustrazione fiabesca all’ interno di quel “maaseno” dove Mimmo Cuticchio ed i suoi numerosi fratelli sono cresciuti dormendo tra gli scenari dell’ Opera dei Pupi, le panche per gli spettatori e il laboratorio artigianale del padre. La stessa vicenda ripropone in chiave farsesca e poetica episodi di ordinaria follia e corrente amministrazione nelle tournée isolane dei Cuticchio che spesso si trovavano a dover prolungare le loro battaglie di pupi fuori dalla scena per calmare i bollenti spiriti dei fautori dell’ uno o dell’ altro paladino scesi a combatterli in singolar tenzone; o per convincerli che Orlando non era davvero morto e che Rinaldo rimasto prigioniero nella tomba di Marchino durante lo spettacolo se ne stava tranquillamente appeso al suo chiodo in attesa di tornare in scena il giorno dopo senza bisogno di essere liberato, magari alle tre di notte, da un solitario commando incapace di prendere sonno. Di passioni furiose e incubi notturni più o meno simili si nutre, nelle commedie per pupi e attori in carne ed ossa di Licata, la fantasia eccitabilissima del settantenne macellaio Don Turi restio a distinguere la realtà dalla finzione teatrale e a digerire il rospo della morte del suo amatissimo Orlando tradito durante la battaglia di Roncisvalle dal perfido Gano di Magonza manipolato, per continuare lo scambio di parti fra pupi e personaggi, da un allievo aiutante di Don Libirtinu, Saro Patacca, che appena può, appena crede di non essere visto corteggia dietro le quinte la moglie del puparo, Donna Rosina, peraltro fedelissima. Un intreccio abbastanza candido e prevedibile che, tuttavia, il cast messo insieme amorosamente da Mimmo Cuticchio radunando storie ed esperienze diverse del teatro palermitano, un po’ come i Teatri Uniti partenopei di Mario Martone, o una succursale di Villa Scalogna, ravviva con scintille, festose lumie di godibilissima spettacolarità popolare. Basta citare all’ inizio quella lezione sull’ intonazione delle voci impartita da Don Libirtinu al suo aiutante interpretato da Giacomo Civiletti, di estrazione cabarettistica e sperimentale, scelto, per contrasto con l’ allampanato Ingrassia, piccolo e tondo come una botticella di vino: tutto un giocare a non capirsi come i Fratelli De Rege su e giù per una scala, sui “sali” e gli “scendi” o gli “appoggia col naso” dei volumi e dei toni di recitazione. Ma Ciccio Ingrassia, il volto incorniciato da una barba bianca, accanto alla rodata conoscenza dei tempi comici rivela qui anche una malinconica presenza da “hidalgo” aristocratico e donchisciottesco, una misurata naturalezza che ricorda in molti momenti la straordinaria lezione di Eduardo. Tra comico e patetico anche il personaggio di Don Turi interpretato da Nino Zappalà che porta nell’ ensemble di Cuticchio, con la moglie Maria, il contributo artistico e araldico di un’ altra Famiglia storica, depositaria con il suo “capannone” mobile di tutto il repertorio di giro dialettale. Il soliloquio funebre di Don Turi con Orlando disarticolato sulle ginocchia è un pezzo tragicomico di grande effetto. Ma senza fargli torto, senza offendere la sua suscettibilità, gli applausi più forti a scena aperta, e giustamente, li raccoglieva la moglie mimando i suoi deliri burrattineschi e i suoi propositi di vendetta contro Gano di Magonza; sogni coronati da un esilerante duello finale a grandezza umana naturale tra Don Turi e Gano-Civiletti. Quanto a Mimmo Cuticchio, che firma anche le interpretazioni della sua Opera dei Pupi nel copione, si è magistralmente introdotto con il “cunto” della morte di Orlando recitato e cadenzato negli incubi di Don Turi. Per completare l’ album di famiglia, sua sorella Anna, di piglio deciso e sbrigativo, era Donna Rosina, e l’ undicenne figlio Giacomo, apprendista puparo, caratterizzava fra gli spettatori del teatrino un vispo suonatore di pianola e un venditore di “calie e semenze”.

NICO GARRONE

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