“Suli e nuvuli”, analisi estetica nella poesia di Vincenzo Licata – di Accursio Soldano

Suli e nuvuli

sole_nuvoleDiu

Tu lu sai

chi lu suli

è nnamuratu di la me terra

picchì lu vulisti Tu!

Picchissu, quannu passa na nuvula

o arriva la ddraunara

sintemu tutti friddu!


Diu

comu nun t’adduni

chi nni st’Isula d’amuri,

nnamurata di lu suli,

stamu murennu agghiacciati!

Analisi estetica nella poesia di Vincenzo Licata – di Accursio Soldano

Quando cerchiamo di comprendere la parola della poesia del punto di vista del poetare, non c’è modo che tale parola ci appaia solo come espressione. Ogni parola non è in sé, ma nella maggior parte dei casi “rappresenta” altro. Il poeta si raffigura e presenzia un “possibile”. Una volta composta, la poesia dice soltanto quello che il poeta ha voluto dire non con le parole, ma con una molteplicità di sensi. Le parole scritte sono solo quelle che usiamo per farci capire, fanno parte del linguaggio comune e il poeta è costretto ad usarle, ma qui perdono ogni singola validità di parola in sé per lasciare posto alla rappresentazione dei sensi racchiusi dentro una singola frase, o addirittura dentro una parola.

“Diu”

L’inizio della poesia lascia subito immaginare il soggetto. Questo è Dio. Siamo quindi catapultati fuori dalla sfera del sensibile, siamo in una sfera che non è più nelle cose. Il poeta non si rivolge ad una persona, il dialogo non è con un altro soggetto, ma verso un’entità superiore. L’inizio è già significativo. Il rivolgersi a Dio non è di Vincenzo Licata come persona, ma è una prerogativa del poeta. Nell’antica Grecia, ad esempio, il poetare non era considerato arte, in quanto non rispondeva a nessun criterio. Non era come l’architettura che ha bisogno di calcoli, la poesia era ispirata dalle muse, dagli dei, il poeta parlava ed attraverso di lui parlavano gli dei.

Omero inizia il suo poema con “cantami o musa”, lo stesso fa Apollonio quando si accinge a raccontare il viaggio di Giasone e degli Argonauti. I poeti non scrivono né le poesie né i poemi, è il Dio che parla al poeta e il poeta ha il compito di tradurre, con un linguaggio accessibile a tutti, quello che il Dio vuole dire. Il poeta, come scrive Sarbiewski, può non presupporre né l’esistenza della trama né del soggetto, ma è come se con un atto creativo potesse dar vita sia al tema stesso, sia al modo di concepirlo. Un creatore parla con un creatore. Lo stesso Emile Zola diceva “vedo in ogni scrittore un creatore che cerca dopo Dio di creare una nuova terra”. La seconda frase rafforza il concetto di poesia intesa come “fare”.

“Tu lo sai”

Il dialogo è amichevole. Evidentemente tra il poeta e Dio c’è un rapporto; esiste un rapporto che non è fra un essere superiore ed un mortale; il tono confidenziale “tu lo sai” non lascia dubbi a questo proposito. L’essere soprannaturale diventa un interlocutore qualsiasi al quale il poeta si rivolge. Ma in questa sua apparente, diciamo così, irriverenza o amoralità del dialogo, c’è espresso un concetto altrettanto morale. Dio non è riconosciuto come Dio, non è l’essere da prendere ad esempio, proprio perché il concetto di Dio come sommo bene deriva unicamente dall’idea che la ragione stabilisce a priori. Come scriveva Kant, nella sua “Metafisica dei costumi”, se l’essere buono è preso ad esempio, lui stesso non può essere il sommo bene, proprio perché giudicato e quindi sottoposto a confronto. Nella sua apparente irriverenza, quindi, c’è l’accettazione a priori del sommo bene. “Tu lo sai” è l’accettazione del fatto che Dio conosca ogni cosa.

Ma perché il poeta ha la necessità di parlare con lui? Cosa deve dirgli?

“Tu lo sai che il sole è innamorato della mia terra”

Il sole è innamorato della terra di Sicilia, il sole la riscalda, c’è tanta luce, non c’è ombra, il mare è limpido, il cielo è chiaro. Il sole illumina costantemente il sole di Sicilia. A questo punto ci si aspetterebbe una descrizione degli effetti di questo “amore del sole per la terra di Sicilia”, una descrizione di aranceti, limoni, acque limpide, e invece il poeta continua: “Perché l’hai voluto tu”.

Dio, il sommo bene, ha voluto che il sole riscaldasse la terra di Sicilia. Ecco la rivelazione. Non interessano i suoi effetti, sono marginali, o meglio, sono così scontati rispetto al volere di Dio, che non interessano. Dio vuole che il sole riscaldi la terra: gli effetti sono, diciamo così, naturali. E il sole ubbidisce. Dio ha comandato e il poeta lo sa. Lui non interroga Dio per sapere se ha comandato al sole di riscaldare la sua terra, ne è certo. Ma allora, perché glielo ricorda. Perché questo preambolo? Se il sommo bene, che è Dio, ha comandato al sole di riscaldare la terra, qual’è il problema?

Anche la seconda strofa non scioglie il dubbio, anzi per certi versi lo amplifica.

“Per questo quando passa una nuvola sentiamo tutti freddo”

E’ un “per questo motivo” non è un “ma”. E’ una risposta ad una domanda che non è stata formulata. Ricapitoliamo. Dio è sicuro di aver ordinato al sole di riscaldare la terra. Il sole ubbidisce, ma il poeta sente il bisogno di giustificare il suo sentire freddo. E se ha freddo la colpa non è del poeta e nemmeno della nuvola che passa e copre il raggio di sole. Ma quella nuvola che passa, non sappiamo se piccola o grande, se il vento la fa andare via subito o staziona nel cielo, spezza il calore, la limpidezza, copre la linearità dell’azione del sole, spezza l’armonia. Una nuvola in mezzo al sole riesce a far sentire freddo.

ACCURSIO SOLDANO

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