Vincenzo Licata: l’uomo e il poeta – di Enzo Puleo

LU CICCHENNINU

Din don don …
Din don don …

Sunava d’accussì lu “cicchenninu”
di stu paisi miu di marinari.
E l’ecu rispunnìa di lu gran mari,
di la marina nostra, ogni matinu.

“Fighiu” dicìa me’ matri, “attentu, attentu,
beddu cuntenti, vattìnni a la scola!”
E m’astutava ‘n-vucca la parola
cu na vasata soi, c’ancora sentu.

E mi nni jia a la scola, cutulinu,
mentri lu ventu a mari si sciarriava.
Sintìa lu “cicchenninu” chi sunava
ddu cantu, chi nun fu lu me’ distinu.

Din don don …
Din don don …

O scola, primavera di la vita,
priziusu scrignu di duci pinseri,
gran mari di di cosi cchiù sinceri,
spiranza luminusa ed infinita.

Suli di fidi e di maternu amuri,
di sacrifizi, di passioni ardenti,
tu sì l’eterna luci di li genti
pi liberalli di li lochi oscuri.

S’illumina a chiamarti, la parola,
tantu sì duci, tantu sì splinnenti.
Siddu ti pensu tu mi sì obbedienti …
E st’anima, assitata, si cunsola.

Amàriti è na cosa cilistiali
pirchì l’amuri toi nun ha cunfini;
tu mi dasti li rosi senza spini
bianca palumma, beni universali.

Fussi na regia tutta brillantata,
una casuzza spersa di campagna,
na cammaredda supra na muntagna,
un macasenu afflittu di cuntrata,

sì sempri Tu, jardinu binidittu,
paradisu di luci e di sapiri,
dunni l’omu canusci lu duviri
e, nni la libertà, lu sò dirittu.

Pi tutti di me’ jorna strati-strati
chi ti lassavi senza na parola,
ora ti cantu tutta, amata Scola,
di jorna pi mia su’ pugnalati,

cutiddati, rimorsi, pintimenti
chi ‘un cumprinnivi su to’ Granni Amuri …
Ed iu mi sentu sempri un piccaturi
chi t’annintuva tutti li mumenti;

pirchì nni lu to’ cori c’è na fiamma
ch’illumina la vita e dà l’Amuri!
Scola pìghiati tutti li me’ ciuri,
ddi ciuri chi si dunanu a la Mamma!

Din don don …
Din don don …

Ora ti cercu senza mai stancari,
ma l’ecu toi si persi ntra stu mari!

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Vi chiederete perché abbia scelto, fra tutte, proprio questa, solo questa. Ebbene, intanto devo confessarvi che un condizionamento c’è stato, infatti come avrete notato si parla di Scuola: è un inno alla scuola, alla sua importanza. E per me che amo la scuola, l’ho sempre amata, è quanto dire.

Ma non basta. In questi versi ci sono, si raccolgono tutti quegli elementi che arricchiscono l’impegno poetico e sociale di Licata.

C’è Lu Cicchenninu che da solo ci riporta alla memoria tutto un mondo antico e semplice che non c’è più. C’è il mare grande. C’è la mamma, bene unico. C’è la cultura, eterna luce della gente. C’è vivo il bisogno della libertà. C’è l’amore – il bene – il bello. C’è il cuore che palpita tra rimorsi, pentimenti, gioie. C’è il concetto di dovere e quello di diritto. C’è la natura vista, letta, cantata come giardino, campagna, colomba, reggia, casa, montagna, fiori. C’è tutto un mondo, il mondo dell’uomo, il mondo del poeta. Un mondo di piccole cose, puro semplice, bello. Quel mondo nel quale il poeta ha vissuto, si è ritrovato e nel quale, forse, vorrebbe vivere ognuno di noi.

A noi resta solo la nostalgia, il rimpianto nell’impossibilità di penetrare in quella dimensione nella quale agiatamente, invece, si muoveva il poeta.

Purtroppo non a tutti è concesso di possedere quella sensibilità, quella fanciullesca purezza grazie alla quale ci innamoriamo, cantandole, delle cose semplici, che poi sono cose che danno significato e spessore alla nostra esistenza. “Carmina non dant panem”: così scrisse un famoso poeta latino. Le poesie, i versi non danno pane. Forse è vero, forse no. Ma è certamente vero che non di solo pane vive l’uomo. Ed infatti, se Vincenzo Licata oggi vive ancora in mezzo a noi lo si deve anche ai suoi versi.

Egli amò Sciacca tanto che seppe coglierne i colori, il folklore, la religiosità, gli affetti, i sentimenti, i personaggi con pennellate incisive ed eloquenti e con quella semplicità formale e strutturale che è propria della poesia in vernacolo.

Licata, figlio di Sciacca, ha saputo cogliere l’anima sciacchitana, un’anima che ritrova la sua essenzialità nel mare e che dal mare succhia tutta la sua forza, il suo fascino, la sua storia.

Poeta ed attore assomma tutta la sua sensibilità e tutta la sua ispirazione nel volto segnato, intensamente espressivo, uno “Scoglio” nel quale si raccolgono, si sintetizzano la poesia, la forza, la sofferenza, la serenità, la bellezza, l’immensità del mare.

“Io non sono poeta”, scrisse Licata, “sono stati questi luoghi incantati, questo cielo, questo nostro azzurro mare a farmi diventare poeta”.

Ma egli è poeta. E lo è perché gaio, ironico, comico, ha saputo gettare lo sguardo sulla vita, la vita di Sciacca, della sua Sciacca, penetrando nell’interiorità del cuore umano e nel significato delle cose: scolpendo con la forza della parola immagini e sentimenti che stigmatizzano la Sicilianità per la quale in ognuno di noi, che siciliani siamo, al sonno si sposa la veglia, alla mediocrità il genio, alla quiete la tempesta, al torpore l’irresistibile bisogno di lottare e di vincere.

Ed è l’amore che alla fine trionfa: “Dintra a sta casa mia c’è sempri festa / quannu ci trovu a tia, bedda pulita / E m’abbrazza sta gioia di marinaru / cu dù vrazza chi parinu d’azzaru / Lu suspiru miu …” è come un venticello che passando per pianure, monti e mari ti porta il mio cuore e il desiderio che io ho di te, un desiderio che cresce sempre e che non può spegnersi.

Un amore che veste l’animo umano, ma anche le cose: “Di lu rosa ti fazu dù aricchini / di lu russu dù aneddi pi sti mani / E la vara chi pari un bastimentu / acchiana a la matrici / Lu tempiu nostru anticu”.

Ma, a mio avviso, la valenza poetica di Licata, si coglie soprattutto nell’impegno civile mirato a focalizzare i mali del suo tempo, la corruzione, l’immaturità, l’ipocrisia: “Li vasati su tutti sputazzati” – “Ora la lotta è sulu pi la panza”.

Ma l’impegno civile di Licata, a mio giudizio, va oltre, nel senso che spesso diviene eloquentemente messaggio mirato ad educare, a richiamare in vita valori essenziali, che danno significato, spessore, valenza all’esistenza umana.

Anche in quelle composizioni nelle quali (vedi “Lu schiticchiu”) apparentemente ci si muove in una dimensione frivola, godereccia, sotto sotto si colgono elementi di portata educativa, come il bisogno, per l’uomo, di incontrarsi, di scherzare, di solidarizzare, di condividere, di ricordare.

Ecco, di ricordare: quasi che la memoria (un gnornu – quannu – fu – vint’anni, su vint’anni chi partiu) costituisca il serbatoio dal quale Licata attinge copiosamente con quella malinconia che di volta in volta diviene amarezza. Bontà, umiltà, gioia, forza del cuore.

A ben guardare forse in Licata, nei suoi versi c’è molto di più di quello che appare: oltre le parole c’è tutta la tenerezza, tutta la drammaticità di un cuore, bagnato di delicata sensibilità, che ha saputo leggere, cantare Sciacca, e con Sciacca la Sicilia, con note scritte sulla pergamena del tempo, il tempo millenario di una terra, semplice e complicata, ricca e povera, grande e piccola, infinitamente densa di colore e di calore come la terra di Sicilia.

Forse Sciacca è davvero il luogo dell’anima dell’uomo e del poeta Vincenzo Licata.

Ed è giusto, doveroso ricordare a tutti che tanto amore no può, né deve essere sciupato, ma considerato, riconsiderato, visto e letto come monito ai Saccensi per un impegno sociale mirato a difendere la memoria di chi tanto ha dato e nel tempo stesso ad emulare, col proprio contributo, le scelte di chi, come Licata, ha saputo dare a Sciacca quella dignità, quello spessore, quella valenza che Sciacca merita per le sue risorse, la sua cultura, la sua storia.

E a proposito di dignità, vedete amici, ci sono uomini che con la loro stupidità spogliano la propria terra privandola della sua dignità; mentre ce ne sono altri che, invece, sulla loro terra lasciano fiori che, seppur col tempo sono destinati ad appassire, il loro profumo durerà per sempre.

ENZO PULEO

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