L’ultimo sorriso

Di soppiatto e senza nemmeno mettere in ordine i suoi canuti e scarmigliati capelli per l’ansia di non farsi, Agnese indossa uno stinto soprabito e, ciabattando, entra con passi attenti nell’ascensore. Scesa al pianoterra, raggiunge l’uscita secondaria sperando che nessuno possa vederla e fermarla. Sa che, a quell’ora dedicata al riassetto del refettorio, l’uscio che dà sul portico e, da qui, al cancelletto apribile pigiando l’interruttore nascosto da sempreverdi, rimane semiaperto per cambiar l’aria viziata dagli odori della cucina.
Approfittando della porta lasciata socchiusa dal personale, quindi, Agnese sguscia fuori dal Centro residenziale per anziani, definizione vestita a festa di quella che rimane, comunque, una casa di riposo se non, alla vecchia maniera, un ricovero. Anche se le sue gambe sono malferme, lascia la stampella, di cui si serve abitualmente, nella stanza condivisa con la brontolona Maria, sempre alle prese con discorsi tra sé e sé che l’estraniano in un mondo tutto suo e che non s’accorge nemmeno delle strane manovre dell’amica durante il riposo pomeridiano.
Così, arrancando prudente tra ghiaino e selciato badando a non mettere un piede in fallo, Agnese si ritrova fuori. Fuori dalla monotonia di regole e dalle premure attorno a denti stretti. Fuori dall’abitudinaria solitudine e per gestire la sua fuga aspettata ed improvvisata insieme. Fuori, nella primavera che rumoreggia ed occhieggia attorno.
Non le par vero d’esser riuscita nell’impresa di rimugina da tempo. Quella d’andar per i fatti suoi senza dover rendere conto a qualcuno, libera di trasformarsi in attempata birichina con i suoi 79 anni suonati, divertendosi a rubare lo spazio ed il tempo.
Le persone che incontra nel breve tragitto verso il parco giochi del quartiere, da tempo suo sfizio insoddisfatto, la degnano appena d’uno sguardo. Sufficiente perché sfuggenti verso fatti loro ed insufficiente al vederla sola, anziana ed impacciata nel muoversi, in soprabito e ciabatte, verso chissà dove. La madre degli indifferenti partorisce di continuo e guarda di sghimbescio anche Agnese, entrata, infine, nel parco giochi come Ulisse nella sua Itaca.
E lei, vedova senza figli, guarda l’isola che non c’è diventata, finalmente, isola che c’è. C’è, sì, coperta da una nuvola di alberi che regalano tanta ombra e concedono ben poco spazio alla vista delle vere nuvole, lassù, pigre vagabonde.
Osserva bambini che giocano, bisticciano e fanno pace. E mamme che assecondano e sedano. Scorge una panchina vuota, vicina all’altalena, che raggiunge con la calma meditata di chi non può pretendere più di tanto dal proprio fisico debilitato dalla vecchiaia. Si siede e, incurante di certi sguardi di pacata preoccupazione che lei interpreta, più che altro, come occhiate di sterile curiosità per un’estranea, tira un sospiro di sollievo per avercela fatta e rovista nelle tasche del soprabito per tirar fuori quello che chiama il suo portafortuna. Il rosario acquistato per quattro soldi, anni addietro, durante un pellegrinaggio a Lourdes e che lei custodisce sempre in un fazzoletto. Un fazzoletto con le sue iniziali da nubile.
Poi, abbassa la testa e chiusi gli occhi al tepore primaverile che assopisce, le sue dita iniziano a viaggiare sui grani toccando luoghi e volti già visti, lasciandosi dolcemente scivolare nell’ammaliante voragine a ritroso nella memoria dove il rosario è, pur sempre, la fune di salvezza, il cordone ombelicale con la realtà.
Ritrova i lontani dolori per lo spegnersi si papà Giovanni prima e mamma Silvia poi. Rivive l’unica gravidanza che l’aveva esaltata e l’atroce accorgersi del cuore di bambina in gestazione che non batteva più. Rivide il suo Luigi sul letto d’una morta annunciata dal subdolo tumore ma sempre non creduta. Risente lo scandire d’un lungo passato di serenità ed affanni stretto tra infanzia ed adesso.
E vede aprirsi nuove possibilità, crede in quella sensazione d’infinito che la sta invadendo mentre allenta la presa sul rosario, il suo respiro si fa affannoso ed un brivido la percorre tutta. La forte emozione, giunta da sperduti orizzonti che attendevano dentro, colora i ricordi in bianco e nero e fa ordine nel guazzabuglio di bene e male, di sorrisi e lacrime, di presenze e assenze. Addomestica rimpianti e rimorsi e giustifica errori, già pagati semplicemente vivendo.
Un bambino poco distante, intanto, osserva l’altalena libera e la nonna sulla panchina accanto, apparentemente addormentata con quella specie di collana di plastica tra le mani. Si volta due o tre volte indietro come per essere rincuorato dalla mamma, vicina all’ingresso, che lo controlla di tanto in tanto. E che poi prosegue imperterrita in pettegolezzi ridanciani con due amiche incontrare nel parco giochi. Il piccolo non ha il coraggio di farsi avanti per salire. Non vuole disturbare con il cigolio dell’altalena il sonno di quell’anziana signora mai vista prima. E torna di corsa sui suoi passi sapendo dove trovare altri giochi.
L’ultimo sole del pomeriggio si fa largo tra le fronde ed uno spicchio di luce riesce ad accarezzare i candidi capelli di Agnese, mossi dalla brezza. Forse vuole scaldare, agitare, scuotere quel torpore, far risale dall’abisso l’interprete stessa di ricordi e sogni in cui s’è lasciata andare volentieri. Ma il solo attimo di calore non ravviva il freddo d’un corpo che ha assistito, impotente e rassegnato, all’addio dell’anima incontro all’armonia al di là di spazio e tempo.
Mentre la sera dà il cambio al pomeriggio, i bambini seguono alla spicciolata le mamme verso l’uscita, vociando e rincorrendosi. Solo qualcuno butta un ultimo sguardo alla nonna assopita, convinto che verrà riaccompagnata al vicino Centro residenziale che l’ospita. Nessuno, però, nota quel sorriso dipinto sul volto di Agnese, l’ultimo sorriso alla vista del suo Luigi, lui, sì, venuto a prenderla per portarla con sé dove la pace non ha più bisogno di preghiere…

di Claudio Beccalossi
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Il racconto “L’ultimo sorriso” si è classificato tra i finalisti della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009.

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