Il silenzio del ghiaccio [1941]

Sento l’aria glaciale che mi attraversa le narici e mi consuma lentamente le ossa. Provo nuovamente a muovere le dita del piede ma neanche questa volta risponde ai comandi. Sento le spalle scosse da forti tremiti di panico. Cerco di calmarmi riportando alla memoria immagini che leniscano il dolore del corpo e dell’anima.
—–
Il profumo dell’erba appena tagliata che diventa poi fieno per le bestie nella stalla, il gusto del latte appena munto rubato dal secchiello, il belare della pecora nel recinto e l’acre odore di fumo che proviene dal camino di casa.
Casa. La mia casa. Le braci ardenti scoppiettano nel camino e sento il leggero trottellare di mia moglie che si affaccenda in cucina. Le ossa si stanno lentamente scaldando e il leggero brontolio dello stomaco si ristora dall’intenso profumo di minestra che bolle sopra la stufa.
La mia sedia é lì, nell’angolo, con la superficie non così ben levigata ma costruita dalle mie stesse mani durante le fredde veglie invernali. Ho intrecciato ogni singolo cordino di quella seduta, così come ho tagliato e fissato lo schienale ai piedi. Vista nell’insieme é una chiazza disomogenea assemblata con gli scarti del legno che non potevano essere venduti o erano troppo giovani per essere bruciati. Nulla di quello che poteva rendere il prezzo di un pasto in più per la famiglia o riscaldare le notti gelide veniva usato per rendere accogliente la nostra casa. Le tende sono il pezzo più bello ed originale: mia moglie le ha cucite con i ritagli degli abiti che confezionava per le signore benestanti ed era riuscita a trasformarle in un vero capolavoro. Non sono affatto un insieme disordinato di pezze ma costituiscono un intricata tela di colori con al centro un motivo floreale formato da gusci di noci e nocciole come un quadro dipinto da quei grandi pittori francesi. E’ incredibile come l’amore possa trasformare una stanza in un castello incantato. Io ed Elena ci eravamo sposati molto giovani, io avevo 23 anni e lei non ancora 17, ma l’amore e il rispetto reciproco sono stati la nostra unica forza. Insieme avevamo superato i momenti bui della povertà dividendo il poco che la campagna riusciva ad offrirci ed inventandoci nuovi lavori che potessero regalarci un pasto in più. Mai, neanche per un momento ho creduto che la vita fosse ingiusta nei miei confronti. La vita dà e toglie: io non avevo avuto molto fino ad ora ma sapevo aspettare e presto sarebbe arrivato il mio momento.
La vita dà …
Il giorno in cui Elena mi comunicò che aspettava un figlio la luce era entrata dirompente nella mia vita. Eravamo piuttosto poveri ma non mi sfiorò neanche per un momento la preoccupazione di non riuscire a sfamarlo. Un figlio è un dono di Dio e, in quanto tale, egli non permetterebbe mai che uno dei suoi figli soffra. La notizia aveva solo il sapore del pane appena sfornato: caldo, fresco e croccante. Una nuova vita stava prendendo forma grazie all’amore che due persone erano riuscite a condividere. Avrei dato a mio figlio tutto quello che era mancato a me. La sicurezza di una casa, l’amore incondizionato dei suoi abitanti, la certezza di essere sempre ben accetto quali fossero le sue scelte o decisioni.
La sua culla. Avevo deciso di costruirgliela perché quello sarebbe stato il primo ambiente che avrebbe visto e volevo che si sentisse al sicuro e protetto. Doveva essere solida e resistente alle tempeste della vita per cui quell’inverno rinunciai a diversi pasti e al legno migliore. Ora il risultato era lì sotto i miei occhi. Un fagottino avvolto nella lana che veniva cullato dal rollio del vento che penetrava dalla finestre. Lui sarebbe stato il mio futuro.
E la vita toglie …
Il rispetto della bandiera e dei valori dell’Italia imponevano e richiedevano la mia presenza nelle file dei battaglioni per difendere la nostra patria: l’Italia era in guerra. Non dimenticherò mai gli occhi di mia moglie. Pieni di lacrime, sì, ma sicuri e speranzosi. So che tornerai da me, mi aveva detto a fior di labbra, e io ti attenderò qui, non ho fretta amore.
—–
Lentamente ripresi coscienza. Sentivo la terra fredda scivolare attraverso la giubba e cercai di aprire gli occhi. Dovevo rimanere sveglio per la mia famiglia. Guardai nuovamente attorno a me ma quello scempio non era scomparso. Il sangue era oramai diventato un fiume gelato e il mio respiro era il solo che tagliava il muro di ghiaccio. Sentivo ancora nelle orecchie lo scoppio assordante della bomba che i russi ci avevano indirizzato. Attorno a me nulla aveva più vita. Ero il compagno silenzioso della neve che mi avvolgeva. Ero rimasto zitto ed immobile per così tanto tempo che non sapevo se sarei stato in grado di proferire verbo. Quanto tempo era passato? Ore, giorni o settimane?
Sono un uomo d’onore lo sono sempre stato. Non sono un vigliacco. Vorrei che mio figlio lo sapesse. Vorrei scrivergli una lettera ma non so se uscirò mai da questa fossa oramai coperta di terra. Sono venuto a combattere una guerra che non mi appartiene, per valori che non sono miei. Il rispetto, la pace e la libertà: questi sono i miei valori. Quelli per cui sono disposto a lottare, quelli per cui sono partito e ho deciso di difendere. Ma non è per questo che ci hanno inviato a combattere.
Nella guerra, in nessuna, esiste la libertà. Non è una cosa che si può conquistare. Se fossi stato libero adesso sarei a casa a spaccarmi le ossa e bruciarmi sotto il sole per coltivare la terra e la mia pelle sarebbe rugosa e riarsa dal sole e le mie mani callose. Ora invece sono qui con le mani livide dal gelo e la pelle spaccata dal freddo.
Le guerre sono un modo vile di morire. E non esistono gli eroi. O per meglio dire, tutti lo siamo allo stesso modo anche se non verremo insigniti di una medaglia che lo dimostri.
La realtà più dura è stata rendersi conto che i nostri nemici non sono i nostri avversari ma chi ci comanda. Non siamo entrati in guerra per difendere qualcosa che ci appartiene ma vogliamo conquistare qualcosa che è di altri. E ci definiamo un paese cristiano? Quante falsità ci avete sempre fatto credere! Abbiamo pubblicamente infranto uno dei dieci comandamenti: non desiderare la roba d’altri. E non solo! Noi attacchiamo affinché sia lecito sottrarre quello che appartiene ad altri. E non sempre è qualcosa di materiale. Voi ci rubate l’anima e la tranquillità. Perché se anche riuscirò ad uscire da questo inferno non riuscirò mai a dimenticare. Tutto questo condizionerà per sempre la mia vita. E per cosa?
Sempre più spesso fatico a trattenere i miei sentimenti. Mio padre mi ha insegnato a non odiare nessuno. L’odio, mi diceva spesso, è l’arma silenziosa e vincente dell’avversario perché alimentandolo finisce per corroderti internamente fino a portarti all’autodistruzione. Scusa papà ma è inevitabile. Ormai ne sono certo: provo odio. Odio chi ci ha mandato qui a morire di freddo, senza le armi adeguate ed impreparati a questo clima. Odio chi ci ha mandato a combattere questa guerra persa in partenza. Odio chi in questo momento, mentre io sto morendo in questa fossa anonima, conta le perdite rimanendo seduto nel proprio scranno dorato. Odio chi alla fine di questa guerra oserà dire che le conquiste sono superiori alle perdite.
Odio. Ed è per questo che voglio rimanere in vita. Voglio poter testimoniare cosa ha ucciso noi italiani. Non sono i russi, i francesi o gli americani. Ad ucciderci è stata la fame di potere che ci ha inviato a combattere. Abbiamo perso. Possiamo anche vincere questa guerra maledetta ma alla fine quando conteremo le perdite e i danni sapremo la verità che probabilmente sarà differente da quella che sarà riportata sui libri di storia: abbiamo perso. Tutti. Quando si entra in guerra si perde sempre.
E il risultato è qui, vicino a me, avvolto in una terra di morte, la stessa che sta avvolgendo me ora. Spero che il nostro sacrificio sia servito a salvare i nostri compagni. Spero che siano riusciti a mettersi in salvo e che questo li aiuti a ritornare a casa. La mia non è vigliaccheria ma vi grido “Tornate a casa”. Finché potete. Prima che sia troppo tardi. Prima di morire.
Ho un solo grande rimpianto. Ti chiedo scusa figlio mio. Avrei dovuto proteggerti dalle malignità del mondo invece ti sto abbandonando e il futuro, quello che ti aspetta alla fine di questa guerra, è una macchia di inchiostro indelebile nero. Le tenebre hanno ormai preso il sopravvento. Sento che le forze mi stanno abbandonando e voglio lasciarmi andare. Morirò solo in questa fossa di terra senza il conforto di nessuno, in una terra straniera che ci ha rubato tutto.
—–
Non ho più freddo. Anzi sento il caldo avvolgente della lana sul corpo. Deve essere questa la sensazione che si prova in paradiso. E’ una sensazione meravigliosa. Cerco di aprire gli occhi e vedere la luce così tanto agognata nelle mie ultime ore di vita.
A poco a poco i miei occhi si abituano alla semioscurità. Possibile che il paradiso sia così buio? Muovo le mani e sento la terra fredda. Sono vivo! Lo sento … sento il respiro, il mio respiro … i polmoni si gonfiano e si sgonfiano. Sono vivo. Resto in ascolto: attorno a me solo il sibilo del vento. Cerco di togliermi la terra dal corpo. Devo riuscire ad ritornare a casa. Sento rinascere la speranza.
Con dolore e difficoltà muovo le mani. Il piede non mi risponde ma non me ne curo. Fa parte di me e verrà a casa con me. Devo alzarmi. La mia famiglia mi aspetta. Devo sopravvivere. Ho freddo ai piedi. Vi chiedo scusa amici e compagni ma devo proprio prendervi le scarpe e anche le calze. Ne prendo un paio in più. Fa freddo. Riposate in pace. Vivrete sempre nel mio cuore.
Comincio a camminare. Oramai la morte non mi spaventa più. Credevo di essere già morto invece sono vivo anche se non so ancora per quanto.
Non so quanti kilometri ho già percorso ma mi fanno male le gambe e ho sete ma attorno a me c’è solo neve e silenzio che è diventato il mio migliore amico ed il mio più fedele compagno di viaggio. Sento le gambe cedere ma non posso mollare. Intono nella mente la canzone che soleva canticchiare mio fratello. Non ricordo tutte le parole ma il loro suono mi aiuta a dimenticare il dolore e ad imprimermi la mia missione: tornare a casa.
“A la matin bonura, an fan levé< an mandò’n piazza d'armi an fe’ istrussion; an fan marcè in avanti e po'ndaré nuiautri poveri alpini fan male i pé Sai nen perchè fan male i pé an 'smarcia mal, an 'smarcia mal sui marciapé sai nen perché fan male i pé an 'smarcia mal, an 'smarcia mal sui marciapé.
[“I d i s p i a s ì d ‘ n o i a u t r i p o v r i a l p i n ” Canto degli alpini piemontesi durante la prima guerra mondiale. ]
Vedo una luce debole e fioca e un camino che fuma. Ho sete e ho fame. Sono stato cresciuto a pane e religione. Sono andato in chiesa ogni domenica e ho sempre rispettato rigorosamente tutti gli insegnamenti imposti. Ho intenzione di educare i miei figli al rispetto degli stessi ma dall’inizio di questo fiume di sangue ho già infranto quello che mi ha fatto più male di tutti il n° 5: Non uccidere. E non importa se l’ho fatto per rimanere vivo io stesso. Il mio è stato un puro atto di egoismo. Non mi punire Mio Dio ma adesso, senza troppo rimorso devo dire, sto per commetterne un altro. 7: Non rubare.
Mi avvicino lentamente alla porta proprio nel momento in cui si spalanca. Vedo il terrore nella donna che l’ha aperta e non è altro che lo specchio del mio panico. Ho fame e sete. Restiamo in silenzio a studiarci. Potrei spararle, ho ancora il fucile. Potrei farlo e nessuno saprebbe mai nulla. Potrei entrare e rimanere al caldo per un po’. E mangiare. E bere. Nessuno lo saprebbe, tranne me. E questo è un motivo più che sufficiente per non farlo. No. Non posso. E’ diverso uccidere un nemico lontano del quale non se ne distinguono i contorni ma solo una diversa divisa, un nemico che non guarderai mai negli occhi. Questa donna è madre di qualcuno e moglie di qualcun altro. Forse è lì che aspetta il ritorno di suo figlio. E magari mi ucciderà lei a sangue freddo ma voglio rischiare. Non potrei convivere altrimenti. Chissà cosa pensa in questo momento. Anche per lei la decisione sarà difficile. Ho fame e sete. Provo a dirglielo con lo sguardo. Sono un uomo tremendamente orgoglioso ma voglio la sua pietà. Ne ho bisogno. Abbi pietà di me. Si allontana dalla porta e io resto immobile lì ad aspettare. Ritorna. Ha in mano pane e acqua. Dio la benedica. La ringrazio con la mano e mi incammino. Torno a casa. Non so in quale direzione sia ma Dio mi saprà guidare. Dovrò camminare a lungo. Ma quando arriverò, perché io tornerò a casa, ora ne sono sicuro, potrò insegnare agli altri il rispetto per la vita. E’ il bene più grande che abbiamo. E’ l’unica cosa che non si può lasciare in eredità. Voglio che il mio sacrificio e il sacrificio dei miei uomini non sia vano. Voglio che le famiglie dei miei soldati possano piangere i loro figli e mariti che sono morti con onore. Voglio andare a casa.
—–
Figlio mio, non so se avrò mai il coraggio di raccontarti questa mia verità.
Mi dilania il petto ricordare ogni singolo istante di quel passato che mi ha fatto diventare l’uomo che sono ora. Fino ad ora, non ho mai raccontato a nessuno questi episodi e solo chi, come me, ha vissuto e può raccontare una storia simile mi può comprendere. La medaglia all’onore che mi hanno appuntato al petto non è sinonimo di coraggio ma nasconde solo paura. Perché non appena se n’è presentata l’opportunità io sono fuggito da quell’inferno di ghiaccio.
A salvarmi è stato l’egoismo. E oggi, guardandoti negli occhi, so che è stata la scelta giusta.
di Emanuela Bertello
_____
L’opera “Il silenzio del ghiaccio” si è classificata come finalista nella Sezione Racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca” – Edizione 2010.

spacer

Leave a reply