Il manico

C’era qualcosa in quel manico che non andava, proprio non andava. Eppure la cartella l’aveva comprata nel migliore negozio del paese, e anche unico. Le qualità della pelle come aveva elencato l’attempata commessa, soddisfacevano appieno le sue scrupolose richieste. Più lo stringeva e più si addossava la colpa per l’acquisto. Girare per il paese con la vecchia cartella sotto braccio avrebbe influito negativamente sulla sua figura. Gli si era rotta sull’autobus, guarda caso era stato il manico ad abbandonarlo proprio all’ultimo mandato. Più che il manico erano state le giunture che lo tenevano saldo alla cartella a rompersi. Sfilacciarsi, è il termine giusto. Tutto ad un tratto ogni singola corda aveva deciso di abbandonarsi al proprio destino. – In ottone o al massimo con l’anima in nylon. Interamente di corda non ne fanno più. – Le aveva detto la commessa con un tono quasi derisorio, come se usare la stessa cartella per più di quarant’anni fosse un crimine. Sapeva di essere stato fregato e questa sensazione gli veniva dal manico che stupidamente non aveva controllato. Saranno le cuciture; oppure la poca imbottitura. Avrebbe voluto tornare in negozio e chiedere il rimborso, ma rischiava di perdere altro tempo. Avvolto il manico con un fazzoletto aumentava il passo.

 

Così non andava. Quel manico lo infastidiva sempre più. Con la ferma decisone di scoprire il motivo, appoggiata la cartella su una balaustra aveva iniziato una scrupolosa perlustrazione. Costatato al tocco la regolarità delle cuciture aguzzando la vista, aveva seguito ogni singolo passaggio dell’ago confrontando forma e dilatazione dei fori. Niente. Non c’era niente che non andasse. Nemmeno il filo giallo aveva una pur piccola imperfezione, l’omogeneità dell’intreccio seguiva l’intera cucitura. – Sarà questo! – Per quanto sgradevole all’aspetto il suo naso non lo aveva mai tradito, così, sniffando il manico in lungo e in largo aspettava di ricevere conferma.

La tecnologia in quel campo aveva fatto miracoli portando i molti sprovveduti a scambiare la vera pelle con l’insulsa plastica. Conscio di ciò aveva passato in rassegna l’intera cartella aspettando di inalare l’impercettibile, per gli altri ma non per lui, differenza che gli confermasse l’inghippo.

Gli schizzi di uno sputo dal cielo infrangendosi sugli occhiali lo avevano colpito al volto. Con uno sguardo panoramico si era reso conto di essere al centro dell’attenzione dei passanti. Ritornato nei suoi ranghi aveva ripreso il cammino.

 

Come si è arrivati a sminuire un concentrato di ingegneria in questo modo?! Uno strumento semplice all’uso ma di alta tecnologia svenduto per pochi euro. Dove finiremo?! Pensieroso, osservava il magrebino concludere affari con altri malcapitati.

– Cinque euri, cinque euri.- Tenendo un ombrello aperto a mo di bandiera, il banditore fendeva la folla sotto i portici.

Per niente intimorito, impugnato l’acquisto aveva sfidato l’acquazzone.

Ci risiamo. Questa volta però me la sono cercata. Cosa pretendi con cinque euro. Era sicuro che questa volta l’inghippo gli sarebbe saltato subito all’occhio. Invece niente. Pioveva a dirotto. Infilatosi in un bar si rigirava con insistenza il manico. Plastica!

Accentuata la natura del materiale, suo malgrado non riusciva a scovare cosa non andasse. La sua speranza era di trovare un pur piccolo difetto, bollicina, o altri cedimenti strutturali che solitamente avvengono nella lavorazione della plastica. Niente. Lucida, liscia e nera plastica. L’impugnatura non presentava nessuna imperfezione.

– Un Darjeeling First Flush Castleton molto caldo, grazie. – Scolpita la perplessità sul volto del banconista, aveva pensato bene di passare ad un prodotto più commerciale. – Va bene un tè Star. Ma molto caldo. – Su quello non avrebbe ceduto.

 

Man mano che si avvicinava alla destinazione le vie si andavano assottigliando. Costretto a chiudere l’ombrello, gli ultimi scrosci venivano tenuti a bada dalla tesa del cappello. Il fastidio lo avevano portato a pensare a strani comportamenti: abbandonare l’ombrello come un cane in strada; usare la bretella della cartella. Condotte che gli avrebbero evitato quella fastidiosa sensazione, ma disdicevoli per la sua figura. Così, stringendo i denti, si apprestava a infilarsi, come cruna in un ago nell’ultima viuzza.

Uscito dall’asola si era trovato in una piccola piazzetta con un unico stabile presente che abbracciava con le sue mura l’intero cortile. Come avrebbero fatto gli inquilini a fuggire da un’ipotetica calamità. Forse per questo la sede aveva deciso di mandarlo lì.

Chinato leggermente il capo un rigagnolo era fluito ai suoi piedi. Dalla forgia dei volti di satiri che alternati in espressioni differenti adornavano la cornice del portale, registrava il pregio del palazzo. Sopra di esse colli di draghi logorati dal tempo sostenevano una balaustra adornata da ghirigori metallici. Il portone, massello scuro, veniva scalfito nel punto in cui un pesante battente segnava la sua presenza. L’improvviso accendersi di un lampione aveva lanciato un’ombra inquietante ai suoi piedi. La sua. Gli imprevisti della cartella prima e dell’ombrello poi avevano fatto sforare bel oltre dal tempo massimo la sua tabella di marcia. L’ultima corsa dell’autobus sarebbe partita da lì a pochi minuti, e anche volendo non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Dopo più di quarant’anni di onorata carriera avrebbe per la prima volta messo a conto dell’azienda la corsa del taxi.

 

Entri ragioniere, la stanno aspettando. – La prontezza della figura che, curva come non mai, aveva risposto al primo colpo, non gli aveva dato il tempo di controllare, ma era certo che la fastidiosa sensazione era da attribuire ai vari arabeschi floreali che adornavano il battente. Almeno così sperava. Due cose gli erano saltate all’occhio alle parole della donna: lei non faceva parte della famiglia; come mosca nel latte la sua presenza era nota a tutti nel paese. Altro che in incognito. E di chi, se non dei manici era da addossare la colpa! Si ripeteva mentre accodato, attraversa il porticato. La tenue luce di una lanterna lambiva la zona alta del caseggiato mentre i cocci del ciottolato si rischiarivano al passaggio della fiamma tenuta viva dalle premure della domestica. Coperto da uno scialle nero, non era riuscito a vederne le fattezze, ma, vista la fatica con cui si inerpicava sugli scalini doveva averne viste abbastanza.

I Signori sono in salotto; mi segua.- Sussurrato alla fine della scala, quello, più che un ordine gli sembrava un consiglio. Come lucciole nella notte il percorso veniva illuminato dal timido chiarore della candela mentre il buio inghiottiva gli strascichi di luce.

Accomodatosi, trovava arduo stare vicino al bordo tavola, le ginocchia avevano subito innescato lo scontro con la spalletta inferiore del tavolo. Dal lato opposto il capo famiglia attendeva silenzioso. Il fumo denso del sigaro districatosi dai folti baffi aveva trovato un atro impedimento alla sua liberta nella falda del berretto. Coppola, per essere precisi.

Con la cartella al suo fianco, metterla sopra il tavolo sarebbe stato disdicevole, aveva trovato beneficio nel lasciare la presa. Il cliente inarcando le sopraciglia gli aveva intimato l’alt. Con lo stesso linguaggio facciale, aveva fatto uscire la moglie. Spenta la macchina da cucire si era dissolta nella tenebra.

Posato la copia del fascicolo dinanzi al cliente era ritornato al suo posto.

 

Avvitato il tappo alla sua Mont Blanc, aveva accettato di buon grado il sigaro offertogli come conclusione del contratto. Le reminiscenze della sua carriera di annusatore di sigari erano tornarti vivi. Per chiamare il taxi gli era stato offerto l’uso del telefono di casa appeso al muro. Girando la rotella per comporre il numero le sue attenzioni erano state distolte dal cliente che, contratto in mano, lo stava ponendo nella propria cartella. Era identica alla sua. Ma proprio uguale; stesso colore, stesso materiale e stessa marca. Certo, si era rimproverato, esiste solo quel negozio. Al suo sguardo clinico però non era sfuggito un particolare molto importante. Trasgredendo per la seconda volta nella sua vita alle regole, pose la sua cartella sopra il tavolo incollata alla gemella.

Il cenno di assenso questa volta era stato accompagnato da un ghigno compiacente. Con il sigaro ancora fumante il cliente lo aveva preso sotto braccio.

 

Le strade deserte avevano facilitato la corsa del taxi così era riuscito a prendere la coincidenza col treno. Fra i sobbalzi e gli strattoni del vagone si congratulava per la stipula del suo ultimo contratto che gli avrebbe permesso di godersi una eccellente pensione. Con forza stringeva il manico sicuro di non incappare più in quella fastidiosa sensazione.

Contrariamente al suggerimento della commessa non lo aveva abbandonato assieme alla vecchia cartella. Le cose posso sempre tornare utili, si era sempre detto nella sua lunga vita, e così era stato. La cartella del cliente era si gemella alla sua ma non in tutto. Il manico era stato cambiato. Una logora maniglia in stoffa aveva preso il posto della lucida e profumata in cuoio.

Con opera certosina la moglie aveva effettuato un altro intervento. Il fatto curioso era che dopo l’operazione nessuna manico, maniglie, battenti e prese varie gli procuravano quel fastidio. Non gli interessava più sapere il perché. Pronto a porgere il biglietto per l’obliterazione, quando, una smorfia di disappunto si era stampata sul viso del controllore. Impugnava la stessa cartella, la stessa cartella e quel manico.

 

Paolo tortorici

Sciacca

 

Il racconto “Il manico” ha partecipato all’edizione 2012 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca” nella sezione “Racconti a tema libero in italiano”.

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