La malìa del mare

<< Se ti siedi qui quando soffia il libeccio e conti l’onde, vedrai che la novantesima è sempre più grossa delle altre >>, disse il vecchio pescatore mentre i suoi occhi rinsecchiti dragavano il mare.
<< Oh bella! E perché? >> gli domandò il ragazzo.
E il vecchio gli rispose: << Perché?... E chi lo sai il perché? Ti sembra facile spiegarlo? Nossignori, non lo è. Io so solo quello che vedo e quello che si racconta in questo villaggio da quando il mare è mare e il cielo è cielo. Tante volte sono stato qui a contare le onde e l’ho vista. Dicono che quella è l’onda megera, la più femmina di tutte, quella che il libeccio gonfia, spinge e scaglia contro gli uomini che osano sfidare il mare per derubarlo dei suoi misteri e dei suoi pesci. Tutti i pescatori prima o poi la incontrano, ma sono pochi quelli che riescono a sfuggirle >>.
<< Un’ onda femmina? Oh bella! E da quando le onde sono femmine? >> si stupì il ragazzo.
<< Non ci credi? Fai male, ragazzo mio! Devi sapere che il mare è maschio mentre le onde sono femmine perché, appena soffia un alito di vento, subito si agitano, corrono, urlano, schiumano… però ti affascinano, ti attirano e poi… ti tradiscono! Ogni onda c’ha la sua malìa e l’uomo, prima o poi, rimane intrappolato nelle sue spire. Solo i vecchi come me, che le hanno provate tutte, sanno riconoscerle! I ragazzi come te, invece, devono tenere gli occhi aperti, guai a farsi stregare! Se ti prendono è la fine! E poi, ad andare per mare, ragazzo mio, si rischia sempre di crepare: o t’ inghiottono le onde o ti muori di fame, perché il nostro è un mare troppo avaro! Hai voglia di salpare all’alba o andare a largo a notte fonda con la tua lampara… torni sempre con la stiva mezza vuota! >>
Così parlava zì Blasi, il pescatore più vecchio e saggio del villaggio. Sperava di dissuadere Masi, suo nipote, dal farsi anche lui pescatore come suo padre e come lui, ch’era suo nonno; così prese a narrargli un’antica storia.
<< Devi sapere che tanto tempo fa in questo villaggio vivevano un uomo e una donna che si amavano proprio tanto. Si erano innamorati ch’erano appena bambini, ma il loro amore era cresciuto negli anni insieme a loro. Abitavano una casetta mezzo diroccata che si affacciava proprio su questo porticciolo e possedevano una barca con la quale lui, Carmelo, quando il mare era “maschio”, andava a pesca. Tutte le volte che il marito prendeva il largo, la Mena restava col cuore sospeso nell’attesa del suo ritorno perché temeva che, un giorno o l’altro, l’onda megera se lo sarebbe pigliato come aveva fatto con suo padre quando lei aveva cinque anni. Ce l’aveva ancora davanti gli occhi la sera in cui sua madre se la tenne stretta al petto, singhiozzando: aspettava invano il ritorno del suo uomo, seduta sulla ghiaia del porticciolo. Aveva contato l’onde ingravidate dal libeccio e l’aveva vista anche lei, l’onda megera, levarsi alta e rabbiosa ad azzannare l’arenile trascinando con sé ogni cosa, anche il suo cuore inorridito. Pure, era rimasta lì per tre giorni e tre notti a sperare e pregare, pregare e sperare. Poi… le sue imprecazioni le raccolse il vento: “Avaro, ingrato e traditore sei, mare bastardo!...”. Da allora la Mena prese ad odiare il mare con tutte le sue forze e quando vedeva il suo Carmelo pronto a sciogliere gli ormeggi per salpare lo scongiurava: “Ti prego amore mio, non andartene in balia dell’onde, trovati un lavoro da carpentiere o da falegname, vattene a zappare la terra, fai lo scaricatore di porto se vuoi, ma lascia stare questo traditore, se davvero mi ami!”. Ma Carmelo le rispondeva: “Io questo so fare, vita mia. Ma stai tranquilla tu, io forte sono e non ho paura delle onde. E poi a me non mi vogliono quelle! Lo sanno bene che il mio cuore è tuo. Nossignore, a me non m’incantano con le loro capriole e il loro canto, ormai le conosco bene e so cosa fare. Riesco a fiutare i venti che muovono le correnti e so riconoscere le lune e le maree, io!”. Così, quando il mare era “maschio”, anche lui, come suo padre, andava a pesca di pesce azzurro che la Mena puliva e conservava nei barili sotto sale e intanto scongiurava tutti i venti si non montare l’onde all’improvviso contro il suo uomo come avevano fatto con suo padre. Poi, alle prime ombre della sera, correva al porticciolo ad aspettarlo e, appena vedeva la sua barca profilarsi all’orizzonte e i palpiti del cuore cominciavano a cimarle il fiato, si diceva: “Quant’è bello il mio Carmelo! Dio ti ringrazio per avermelo ridato! Grazie, grazie, mio Dio!” e aspettava di perdersi tra le sue forti braccia. “ Sono un uomo fortunato io ad averti, cuore mio!” le sussurrava lui, quando attraccava la barca al molo e la trovava lì ad attenderlo come fosse sempre il loro primo giorno. Allora, se la stringeva al petto e non sentiva più la stanchezza. Ormai Mena si era rassegnata ad aspettare il suo Carmelo, ma aveva preso a ruminare in testa un altro cruccio: desiderava un figlio e credeva che il cielo, chissà per quale mistero, avesse deciso di negarle quella gioia. “ Hai voglia di pregare!” diceva, esasperata da quest’altra attesa che, ormai, s’era impadronita di tutti i suoi pensieri. “ Oh, Santa Vergine Maria, perché mi vuoi negare la gioia di diventare mamma come te? Sarà perché ti ho fatto un torto? Che ci vuole Madonnina mia a dirmelo! Tu spiegamelo che io mi correggo, se no come faccio a capire dove sbaglio?”. E, quando il suo Carmelo andava per mare, lei passava ore ed ore a pregare davanti al quadro della Madonna che teneva al capezzale del suo sterile letto da sposa. Dopo quasi dieci anni di preghiere e speranze disilluse, in un bel giorno di primavera, la Mena scoprì di essere incinta. Era così felice che se ne andò per prati a raccogliere gli anemoni più belli e li portò in chiesa alla Madonna. Poi corse a casa a preparare la cena più ricca che poté, prendendo a credito farina, fagioli e cotiche nella bottega di zì Luigi. Ma, mentre era in cucina, il libeccio prese ad incarognire l’onde che cominciavano a montare, schiumare e rotolare con fragorosi schianti sulla costa; parevano megere strepitanti. E su quegli strepiti il giorno si spense lentamente. Lasciando scivolare il sole in mezzo all’onde. La Mena udì lo schianto delle onde e corse al porticciolo col cuore in gola lì rimase tutta la notte a maledire prima le onde e poi se stessa che, presa com’era da quella nuova smania d’avere un figlio, ormai da tempo s’era scordata di pregare cielo e mare per il suo Carmelo. Quando il sole tornò a levarsi in cielo, lei riprese a sperare e a scongiurare, ma di Carmelo non si vide mai più nemmeno l’ombra. “ Di certo l’onda megera l’ha inghiottito come ha fatto con mio padre!”, le suggerì il suo cuore affranto. Allora, fuori di sé, la Mena corse incontro all’onde scalciando e strepitando: “ Streghe, assassine, traditrici, perché vi siete preso il mio Carmelo? Non vi bastò mio padre? E tu, mare spilorcio, a che prezzo dobbiamo pagare le tue misere sardine?!”. Poi irruppe in chiesa, scaraventò a terra gli anemoni che, il giorno prima, aveva offerto alla Madonna con il cuore in festa, e prese ad insultare anche lei: “ Spietata sei! Sissignori, anche tu sei come il mare, altro che madre! Lo sapevo io che ce l’avevi con me! Quante volte ti chiesi di dirmi che ti feci? E tu, niente! Muta stavi, come una stampa, per farmi continuare a sbagliare. Hai voluto punirmi per avere desiderato un figlio? Dimmelo se tieni questa faccia tosta! Che c’è di male? Ché, non sono donna anch’io come le altre ch ne figliano a dozzine? Che male ti feci per darmi questa pena? Dimmelo!! Perché lo abbandonasti tra le onde infami il bene più prezioso che c’avevo? Hai voluto cambiare la mia gioia in lutto! Perché? Perché? Dimmelo allora! E ora come farò a nutrire questa creatura che mi hai dato al posto di mio marito? Me lo potevi dire chiaro e tondo che dovevo fare a cambio e io ti avrei detto che te lo potevi tenere questo figlio e grazie tante!”. Pianse tutte le lacrime che c’aveva la Mena, poi andò a cercare lavoro alla Cooperativa dei pescatori dove si conservava il pesce sotto sale e, senza gioia, si crebbe quella creatura in seno. “ Questo non è un figlio, una maledizione è!”, pensava tra sé, quasi fosse per via di quella creatura che l’onda megera gli avesse preso il suo uomo. E così trascorse i lunghi mesi dell’attesa sospesa tra rimpianto, disperazione e rancore. Non andò mai più a sedersi sulla ghiaia del porticciolo né a pregare la Madonna in chiesa. Poi, in un freddo giorno di mare in burrasca, la Mena diede alla luce un maschio. Era un bimbo scuro di capelli e di carnagione, come il suo Carmelo, e di lui aveva preso anche il colore verde smeraldo degli occhi. Sembrava proprio che il suo uomo avesse voluto tornare da lei nei panni di quella piccola creatura. Fu solo allora che nel suo cuore riprese a germogliare un nuovo amore, tant’è che lo chiamò Carmelo. Allora tornò in chiesa a riconciliarsi con la Madonna chiedendole perdono di averla offesa e a Lei volle affidare il suo bambino: “Lo vedi, Madre mia? Questo è il figlio che mi desti al posto del mio Carmelo. Lo sai ch’è tutto ciò che ho su questa terra e sono qui per affidarlo a Te. Giurami che mai andrà per mare e io ti pregherò ogni giorno finché ti piacerà di mantenermi in vita”. Tra stenti e privazioni, la Mena si tirò su quel figliolo che più cresceva più somigliava al suo Carmelo, ma più gli somigliava più lei temeva che pure lui volesse fare il marinaio. Allora, per sottrarlo alla malìa del mare, lo mandò a scuola su in montagna dove non giungevano il profumo e il fragore delle onde incantatrici. Pure la catapecchia in cui viveva s’impegnò per comprargli i libri e qualcosa di decente da mettersi addosso. E lui andò, solo per non contrariarla, coi piedi usi a calpestare la sabbia, nudi, costretti nelle scarpe. Ma il suo cuore rimase ancorato al suo villaggio: durante il giorno, gli capitava di chiudere gli occhi e di veder avanti a sé l’azzurra distesa del suo mare e di sentire il dolce canto delle onde. La notte, poi, sognava di correre su spiagge di sabbia, così dorate da far male agli occhi, oppure si vedeva intento a trafficare in mezzo a giacchi e gavitelli, lenze e ami, ancore e gomene o a nuotare tra banchi di pesce azzurro o fondali rigogliosi d’alghe brune e rosse. Poi, quando ebbe i suoi diciott’anni, non ce la fece più a remare contro il suo cuore, così disse alla Mena: “ C’è solo mare dentro le mie vene, mà ! Si vede che anch’io, come mio padre, sono nato per fare il marinaio. Vedi che non sono felice in città? Ti prego, lasciami andare per mare, se davvero mi vuoi bene!”. La Mena capì, eccome! Ma aveva giurato a se stessa che mai più sarebbe tornata a macerarsi l’anima nell’ansia dell’attesa e, men che mai, avrebbe potuto sopportare di vedere pure suo figlio andare in pasto all’onde. Così tacque e, quando lo vide prendere il largo, corse a gettarsi in mare >>.
E qui il vecchio finì il suo racconto. Poi mentre una lacrima bagnava i suoi occhi rinsecchiti e scivolava lungo i solchi incisi dal tempo sul suo viso scarno, cercò lo sguardo del nipote e aggiunse: << La Mena era mia madre, ragazzo mio! >>.
Il ragazzo ristette silenzioso, fissò le vecchie mani del nonno, intente a ricucire i gavitelli della rete, poi si alzò e, senza una parola, si allontanò. Salì sulla parnaza, issò le vele al vento e prese il largo sull’azzurro tappeto scintillante.
Il vecchio rimase a rimirare e scongiurare l’onde, che corsero indolenti a cancellare l’orme del ragazzo impresse sulla sabbia.

di Mariangela Biffarella
_____

Il racconto “La malìa del mare” si è classificato al terzo posto “ex aequo” della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009, con la seguente motivazione:

Sciacca, 1 Agosto 2009

“La malìa del mare”.
In una densa atmosfera verghiana un vecchio, un ragazzo, il mare.
Una storia commovente, un viaggio senza ritorno, un racconto intenso in cui le parole, dure come pietre, ricordano, segnano, feriscono, spengono le speranze. Una lacrima che bagna gli occhi rinsecchiti del vecchio pescatore e che scorre lungo i solchi incisi dal tempo sul suo viso scarno vale da sola a stigmatizzare la drammaticità di una storia nella quale si sciolgono vite segnate dal destino.
Il racconto, condotto con un linguaggio piano e corretto, risulta emotivamente interessante.


Enzo Puleo
componente della Giuria del Premio

spacer

Leave a reply