Zu Fifiddu Quartara

Il suo nome di battesimo era Filippo e viveva in un piccolo paese della Sicilia.
In quasi tutti i paesi siciliani, gli abitanti, per essere individuati facilmente, più che per il loro nome e cognome, vengono regolarmente riconosciuti con la “nciuria”, un sopranome che molti ereditano, addirittura dai loro genitori e quello di Filippo era già appartenuto a suo padre ed era: zu’ Fifiddu “Quartara”.
Fifiddu era un ometto molto vecchio e di piccola statura e quelle profonde rughe sul suo viso, erano i segni tangibili dell’età avanzata, però in paese, nessuno conosceva i suoi anni e forse anche lui, sconosceva la sua vera età.
“Quartara” abitava in una piccola e modesta casa, sita al piano terra e trascorreva quasi tutte le sue giornate, davanti la persiana, rimanendo seduto, sorreggendosi con le mani appoggiate al bastone. Rimaneva in quella posizione per diverse ore e quando la temperatura era più mite, usciva fuori dalla casa e mettendo la sedia direttamente sul marciapiedi, andava a godersi il tepore della strada. I paesani che si trovavano a passare, gli rivolgevano il saluto, dicendo: “Vasamu li’ manu, zu’ Fifiddu, vasamu li’ manu, Quartara”.
Fifiddu ricambiava il saluto, usando parole affettuose: “Vass ‘a binirica, vass ‘a binirica a tutti”. – rispondeva con riverenza e si toglieva la “coppola” con le mani –.
In paese, tutti conoscevano la generosità e l’onestà di “Quartara” e quando c’era la necessità d’aiutare qualche “puvireddu”, era pronto ad offrire i propri denari, ripetendo a tutti, che oltre alla ‘nciuria, suo padre gli aveva lasciato in eredità, anche la saggezza, che custodiva dentro la “quartaredda di crita”. Quella brocca di terracotta, era appartenuta ai suoi avi e Fifiddu la teneva sopra la credenza, accanto al ritratto di suo padre e la custodiva in maniera accurata, come fosse una reliquia.
Una sera, quando stava per tramontare il sole, un uomo dai movimenti sospetti, elegantemente vestito, giacchetta aderente, mani in tasca, cappello sulle ventitré, sigaro in bocca e con un’aria da spaccone, si presentò davanti la persiana del vecchio “Quartara”. Era mastro Turi, un accanito giocatore noto anche nei paesi vicini, meglio conosciuto come: “Zicchinetta”. Non a caso gli avevano affibbiato quel sopranome; la ‘nciuria che portava, gli calzava proprio a pennello ed era il suo biglietto da visita.

“Quartara, m’aviti a veniri di patri, m’aviti aiutari, haiu bisognu di dinari picchì haiu debbiti di jocu. Nun haiu cchiù un sordu, m’arresta di vinnirimi puru lu’ fumu dilla lampa. ’Ntra un misi, vi prumettu, ca’ vi li ‘nnarreri”. – spiegò quelle parole, piangendo disperatamente –
Zu’ Fifiddu, che si era appena alzato dalla sedia, entrò in casa, prese la quartaredda dalla credenza e la porse a Turi, dicendogli: “Trasicci la manu dintra, viri si sti’ dinara ca’ ci sunnu ti ponnu abbastari, viri si poi accummurari”.
“Zicchinetta” rimescolò la mano dentro la brocca e quando la tirò fuori, si ritrovò tra le dita, proprio il denaro che gli necessitava. Ringraziò con riverenza, promettendone la restituzione entro il mese.
Turi fu puntuale, allo scadere del termine riportò il denaro e con le proprie mani, lo introdusse dentro la brocca.
“Accura Turi! lu’ jocu è trarituri, sta’ vota vincisti e ti trasiu bona la quasetta. Oggi ti fu amicu, ma dumani nun poi sapiri comu sarà! Nun ti scurdari ca’ hai figghi a casa”. – quelle parole che gli rivolse, avevano il tono affettuoso di un padre – .
Zicchinetta andò via sorridendo, ma: il lupo perde il pelo e non il vizio.
“Quartara” per tutto il paese, era come il monumento della piazza: sempre allo stesso posto, davanti la persiana e gli uomini e le donne che vi si erano fermati, per chiedere aiuto, avevano sempre ricevuto, oltre all’offerta di denaro, anche una paterna accoglienza. Zu’ Fifiddu aveva parole buone per tutti ed era sempre ben disposto a prestare aiuto, alle persone bisognose.
Trascorsero diversi mesi e una sera si ripresentò Turi: sempre ben messo, stesso atteggiamento spavaldo e sempre con il sigaro in bocca.
Da un bel po’ di tempo, Quartara era nell’attesa di quella visita, sapeva che prima o poi si sarebbe ripresentato.
Il rituale fu lo stesso: pianto e disperazione, con la promessa di riportare il denaro entro la fine del mese. Per la seconda volta rimescolò la mano dentro la brocca, contenente ancora i denari, riposti da Turi la volta precedente e appena li toccò, accennò un ringraziamento e sorrise, poi li strinse tra le dita e scomparve dietro l’angolo del palazzo.

L’odore del suo sigaro, che aveva impregnato quel tratto di strada, piano, piano, di disperse nell’aria.
I mesi trascorsero veloci come il vento: poi un mese, due, tre e tanti ancora, ma di Turi, non si vedeva nemmeno l’ombra.
L’orologio del campanile aveva appena battuto l’ultimo quarto alle otto e Quartara si accingeva a rientrare in casa, quando improvvisamente, riapparve Turi; ma dall’odore del sigaro, diffuso nell’aria, già da un po’ Fifiddu, aveva percepito la sua presenza. Zicchinetta aveva un atteggiamento umile e teneva la testa bassa e penzolante come quella d’un: “cani vastuniatu”.
“Aiutatimi, aiutatimi! Si nun pagu sti’ debbiti di jocu, sugnu cunzumatu. Pristatimi li’ dinari, vi li’ tornu ‘ntra un misi, comu l’urtima vota”. – urlava quelle parole e intanto si schiaffeggiava il viso – .
Il vecchio, prima cercò di calmarlo, poi lo pregò di entrare in casa e prendere la brocca dalla credenza. La quartaredda, secondo quanto diceva Turi, doveva ancora contenere il denaro riportato l’ultima volta e che sosteneva d’avercelo riposto personalmente dentro. Disperato entrò in casa, la prese tra le mani e incominciò a rimescolare, rimescolare, fino a, quando le sue dita incominciarono a sanguinare per l’inutile fatica e quando le tirò fuori erano piene, ma soltanto di sangue.
Quell’atteggiamento di sottomissione assunto da Turi, prima di chiedere aiuto, si trasformò in arroganza: non riusciva a darsi pace, urlava pretendendo scuse e spiegazioni.
Zu’ Fifiddu, vedendo che l’ira di Turi non si placava, dopo essersi sistemato in maniera più comoda sulla sedia, pensò bene di schiarirgli le idee: “Passaru tanti misi e iu aspettai, ma tu nun mantinisti la parola e hai puru l’ardìri di mintìri e diri ca’ li’ dinara ca’ t’impristavi mi li’ purtasti! Iu sugnu vecchiu e mi l’avia scurdatu, ma la quartaredda avi lu’ sennu di l’armuzza di me’ patri e a idda nun si po’ mintìri. A mia, li’ dinari nun mi servunu, è pi’ li’ poviri cristiani ca l’arricogghiu e si tu l’avissi ripurtatu, ora ca’ nn’hai bisognu ti li trovassi. Iu t’avia avvisatu, ca’ lu’ jocu è cosa laria e tu nun vulisti capìri li’ me paroli, ma lu’ veru surdu, è chiddu ca’ nun voli sentiri”.

“Ma comu fazzu ora? Perdu l’unuri. ‘Lu salariu ca’ mi vuscu, nun m’abbasta pi’ campari, vivu di stenti e jocu pi fari cchiù picciuli. Ora chi cci dugnu a manciari alli me’ figghi? – in quelle parole ripeture in maniera convulsa, c’era tanta rabbia – .
Zu’ Fifiddu rimase un po’ in silenzio, poi con le mani si sistemò la coppola e gli rivolse nuovamente la parola: “Un veru omu nun si ecca nillu vizziu, cu’ la scusa di purtari beni alla famigghia. Cu’ lu’ jocu, nun si campanu li’ figghi! Inveci di chianciri miseria, cercati n’avutru misteri e nun ti scantari si t’allordi li’ manu, nun ti sentiri umiliatu, lu’ travagghiu quannu è onestu, avi sempri dignità. ‘Lu t’onuri oramai pirdiu la rutta e r’è troppu tardi pi’ pinzari alli figghi, ca’ un hannu di chi manciari. Sulu ora ti pigghi collira pi’ iddi? L’arbulu picca e la rama ricivi! Nun ti scantari, ‘lu pani alli to’ piccirriddi ci lu’ dugnu iu. Ora vattini, sparisci di r’avanzi l’occhi mei”. – terminò quel lungo e tormentato discorso, con la voce che gli strozzava la gola e intanto con la mano, gli indicò la strada – .
Turi smise la lamentela e andò via: comprese che se avesse insistito, avrebbe solo peggiorato la sua situazione.
Quartara rimase per un po’ amareggiato e quando la sagoma di Zicchinetta sparì dalla sua vista, si sollevò dalla sedia con fatica, prese tra le mani la brocca e s’introdusse in casa. Chiuse la persiana, accese la lampada, baciò la quartaredda e la posò delicatamente sulla credenza, poi rivolse lo sguardo verso il ritratto “dell’armuzza” di suo padre e gli augurò la buona notte.

ZU’ FIFIDDU “QUARTARA”

di Emilia Merenda
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Il racconto “Zu Fifiddu Quartara” si è classificato tra i finalisti della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009.

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