Cardiddu

Minicu ‘u sturpiatu, soprannominato Cardiddu per l’abitudine di accompagnare quel suo incidere sbilenco col verso monotono e ripetitivo del cardellino, per la verità proprio storpio non era ma leggermente claudicante, ingrato retaggio della poliomielite contratta nell’infanzia.
Il padre, Minicu, non l’aveva mai conosciuto e , povero bastardello, era cresciuto sulla strada giocando e ciappeddi o e scorpa.
Quando rimase orfano di madre Vannuzza la lavandaia, le vicine impietosite per la sua condizione di abbandono, lo raccomandarono a Sciavè Jarrusu, ribitteri dei signori Scornavacca perché lo portassero con sé a Pagliazzuni, la tenuta di quei signori. Lì qualcosa da fare l’avrebbe trovata comunque. Così una bella mattina Minicu tiratasi alle spalle la porta fradicia della sua minuscola abitazione, saltò sul carro di Sciavè e accovacciato sulla cassa del carretto giunse a Pagliazzuni.
Le terre degli Scornavacca si estendevano a perdita d’occhio lungo i pendii delle due colline: Pagliazzu e Pagliazzuni fino ai confini con Agliastro e Gianlupo sempre di loro proprietà.
In mezzo alla ciurma di braccianti, garzoni, ribitteri e massari stanziali con le loro famiglie, la presenza del nuovo arrivato non fu notata. La sera come gli altri gli allungarono una scodella di fave che ripulì in un attimo, poi, sopra una lettiera di paglia stesa sull’impiantito, si accucciò vicino ai braccianti che stracchi dalle fatiche cadevano in un sonno profondo.
Col tempo Minicu prese gusto a quell’ambiente: di fame non moriva e ubbidire ai comandi di Massasciavè non gli pesava. Lo mandava a raccogliere rami sparsi per la campagna, di ulivi e carrubi specie dopo la potatura, per legarli in fasci e trasportarli sulle spalle fino alle case. Così divenne frascaiolo e in seguito anche taglialegna.
Quel garzone cinguettante e scherzoso, ormai componente della ciurma era ben visto da tutti.
Quando saliva al palazzo per rare incombenze, i padroni si degnavano di notarlo e di rivolgergli qualche domanda.
Le anziane signorine Antonietta ed Evelina Scornavacca a volte, chiusi i libri di preghiere e deposti gomitoli e unicinetti, amavano scambiare qualche parola con i loro dipendenti specie le mogli dei massari quando salivano per aiutare la servitù nelle grandi pulizie o per portare ben coperti in larghi canestri focacce profumate appena sfornate, pasticci di agnello, di broccoli e ricotta, caitti di spinaci raccolti nell’orto. Raramente aggiungevano, su richiesta del cavalier Matteo, qualche ‘nciminata di cruschello condita ancor calda con olio, formaggio pecorino e pomodoro salato.
Ogni settimana, a turno, le massaie facevano il pane, alimento raro e nobile per quei tempi, ardendo il forno coi rami scoppiettanti di carrubi e ulivi accatastati da Minicu davanti alle loro porte. Appena come un segugio annusava quel buon odore di forno, Minicu si appollaiava sopra una grossa pietra in un angolo del baglio, asciugandosi il sudore e aspettava paziente la provvidenza che quasi sempre arrivava sotto forma di una grossa pagnotta di cruscone condita che afferrava a volo e ingoiava voracemente.
Vita di fatiche e di stenti quella dei contadini in cambio di una certa continuità di lavoro e qualche soldo. Non svaghi né soste. Solo rare sortite in paese per santificare le feste grandi e incontrarsi con gli amici.
I loro padroni fieri e paghi dei privilegi di casta e delle ricchezze accumulate negli anni col sudore di generazioni di braccianti sfiancati e sfruttati nei loro latifondi dove predomina la coltivazione estensiva, di stampo medievale, con l’impegno di forza animale e umana senza alcun sussidio meccanico, privilegiavano la vita di campagna tralasciando impegni mondani e le comodità della loro sontuosa dimora in paese. Culturalmente limitati, schivi e retrivi, rimanevano chiusi e sordi ad ogni forma di cambiamento sociale e al mutare dei tempi.
Non erano di nobile discendenza gli Scornavacca, appartenevano alla crassa borghesia che da generazioni affondava le sue radici nella terra.
Trascorrere in campagna buona parte dell’anno per seguire e controllare i raccolti, era per loro un imperativo categorico con grande rammarico dei loro tre cugini Scornavacca soprannominati rispettivamente Trizza, Spillungu e Naccaredda che sul loro capitale avevano puntato gli occhi e gli appetiti e che avrebbero preferito frequentarli più spesso in paese e corteggiarli come si usa fare con i parenti ricchi e senza prole.
Ma quella intesa, inconfessata aspirazione all’eredità che avrebbe riassestato per sempre il loro instabile equilibrio economico, la sentivano vacillare, non solo per la lontananza dei cugini, ma soprattutto per la loro crescente predilezione e attaccamento a un lontano pronipote e figlioccio, giovane istruito, competente e sollecito nello sbrogliare le loro complicate faccende e nello sgravarli da tanti intricati grattacapi.
Era diventato costui una presenza assidua e costantemente reclamata in casa Scornavacca.
I Trizza e compagni si sentivano schiattare dall’invidia e vedendo seriamente minacciata e compromessa la loro eredità, ebbero degli approcci, si compattarono per discutere e riflettere sul da farsi.
Si avvicinava la Santa Pasqua e il Venerdì Santo, giorno di Passione, di svolgeva in paese una processione dolorosa con la statua di Cristo carico della croce. Nell’animo dei contadini scattò un ancestrale imperativo: sospendere il lavoro e salire in paese per prostrarsi davanti alla statua di Gesù sofferente e seguirne la processione. Nelle loro camicie di bucato e gli abiti scuri, pigiati nei carri predisposti in fila, si mossero lentamente verso il paese.
Pagliazzuni si spopolò. Rimasero soltanto Minicu nella campagna e i padroni nel palazzo.
Il ragazzo non si mosse pensando al pane e alle olive cui avrebbe dovuto rinunziare per la cena e al suo comodo pagliericcio.
All’imbrunire salì al palazzo per riverire i suoi padroni e chiedere se avevano di bisogno qualche servizio. Poi in un angolo del baglio, bruciato un mucchietto di rami, arrostì le olive sotto la cenere. Saziato lo stomaco e l’appetito si ritirò per dormire.
A notte fonda il suo sonno fu disturbato da strani rumori. Appuntò le orecchie. Cauti passi e un fitto parlottio lo insospettirono.
Balzò dal suo giaciglio e uscì fuori gridando: “Cu c’è dduoco?”. Vide il balenìo di lame e tre figuri incappucciati che gli saltarono addosso minacciosi e lo trascinarono a forza dietro il portone del palazzo intimandogli di bussare forte e gridare con quanto fiato aveva : “Cavaleri! Cavaleri! Scinnissi voscenza ppi carità ca muriri mi sientu”.
Qualcuno nel palazzo lo sentì e dopo un poco stridette la serratura e lentamente il portone si aprì. I malviventi liberatisi di Minicu con una spinta violenta che lo fece ruzzolare e stramazzare al suolo, irrupero dentro.
Si avventarono contro il cavalier Matteo ancora dietro il portone e che frastornato e inorridito non credeva ai suoi occhi, lo abbatterono a coltellate e lo decapitarono. Poi come iene inferocite si arrampicarono per le scale fino al piano superiore, tirarono fuori dai letti le signorine assonnate e affogarono le loro alte grida di terrore nel sangue infierendo sui poveri corpi e decapitandoli alla fine come avevano fatto col loro fratello.
Un lieve rigagnolo di sangue prese a scorrere raggrumandosi fin sotto le scale.
I tre sicari portarono a termine la commissione di sterminio, guadagnarono di corsa l’uscita ma si imbatterono in Minicu che tremante di paura e di dolore cercava di sollevarsi e aveva già alzato la testa. In quell’attimo riconobbe uno dei tre assassini che nella fuga di scappare aveva perduto il cappuccio e il riconoscimento gli fu fatale, segnò la sua condanna, feroce e identica a quella dei suoi padroni.
Un cupo silenzio calò su tutto. Solo da lontano una nenia funebre giungeva ad ondate portate dal vento.
Uccelli neri presero a volteggiare, bassi, lanciando sinistri richiami.
La luna piena alta nel cielo seguiva il suo corso creando strani riverberi sulle vetrate del palazzo.

di Lorenza Montisanti
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Il racconto “Cardiddu” si è classificato tra i finalisti della sezione dei racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, Edizione 2009.

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