Biografia

Vincenzo Licata, uno dei maggiori poeti dialettali siciliani di tutti i tempi, nacque il 21 giugno 1906 a Sciacca, dove morì il 26 gennaio 1996. Fu il quinto dei tredici figli di Filippeddu, il famoso e carismatico “corallino” che tutta la sua lunga ed avventurosa vita trascorse alla ricerca e allo sfruttamento dei banchi di corallo nel Mediterraneo, in gara con quelli di Torre del Greco e di Alghero.
Gli studi ufficiali, che si accreditano a Vincenzo Licata sono, oltre le scuole elementari, i pochi anni di frequenza dell’Istituto Tecnico di Sciacca “Mariano Rossi”, che frequentò svogliatamente, preferendo ai banchi scolastici le barche dei pescatori. Con uno scatto d’orgoglio dirà nell’età matura:

“E nun sugnu dutturi né avvucatu,
però cci jivi all’Università:
lu mari, l’Ateneo sconfinatu,
lu Retturi Magnifico, me’ pà.
Li cumpagni di scola c’appi allatu
foru li piscatura chi su’ cca.
E lu prufunnu greco e lu ’talianu
l’appi di stu dialettu sciacchitanu”.


Di quel mondo di pescatori che gli dette le solide basi esistenziali di uomo e di poeta, ricordò sempre due episodi emblematici: il padre Filippo, grazie alla notorietà e alla stima che godeva presso le marinerie di tutto il Mediterraneo, venne ingaggiato dalle organizzazioni dei pescatori della Tunisia desiderosi di apprendere da lui la tecnica della pesca a strascico. Il giorno della partenza, il piccolo Vincenzo, che aveva solo sette anni ma che era ansioso di imbarcarsi sulla marticana a vela del padre, venne dal padre escluso e lasciato sul molo. Ma il piccolo non si rassegnò e si tuffò in mare nel tentativo di raggiungere a nuoto l’imbarcazione del padre già lontano. Fu salvato a fatica.
Aveva 5 anni alla conclusione della lotta ingaggiata da diversi anni dal padre, all’epoca Presidente della Cooperativa Pescatori, con quasi tutti i pescatori che certe innovazioni non capivano: si opponevano, infatti, all’introduzione del motore al posto della vela, convinti che il rumore dei motori avrebbe fatto scappare i pesci. Una vera rivoluzione antitecnologica.
Quella specie di luddismo contro i mostri meccanici ebbe qualche risvolto tragico, anche per l’intervento dei soldati in arme del quinto Fanteria chiamati per sedare disordini e tumulti.
Ma il progresso finì per trionfare dal 1920 in poi, quando le vele delle marticane cedettero definitivamente il posto ai motori. Fu proprio in quegli anni del primo dopoguerra, che Licata cominciò ad essere attratto dalle vicende spirituali del mondo, attuali e del passato, che scoprì dedicandosi alla lettura assidua che trovava nella ben fornita biblioteca di Sciacca. Il suo autore prediletto fu Victor Hugo, che -dirà in seguito- entrò come un fulmine nella sua vita: ciò si comprende facilmente immaginando quale dovette essere per lui l’effetto della lettura de “I lavoratori del mare”. Divorò con passione romanzi di Conrad, Verga, Hemingway, e anche poesie d’ogni tempo.Quelle letture lasciarono in lui un segno indelebile e riemersero quando una naturale linfa poetica cominciò a dettargli i versi che lo avrebbero consacrato come uno dei maggiori poeti dialettali del secolo.
I segni della sua raffinata e sempre più vasta cultura da autodidatta sono evidenti nella maggior parte delle sue poesie. Ne ricordiamo una, intitolata “La varca mia” inclusa nella sua prima raccolta “C’è pirmissu?”, pubblicata nel 1936:

Curri la varca mia ‘n-mezzu lu mari
senza timuni, senza dirizioni;
la vela è abbasciu e nun si po’ ghisari:
ci mancanu li forzi a lu patruni…

Cuntrastata di l’unni sbattulia
ora nta ll’aria, ora si spufunna
ora si jinchi d’acqua e si firria
mentri l’addrizza n’atra forti unna.

Ed iu sulu suliddu, piatusu
supra la puppa trattegnu lu ciatu;
taliu lu mari sempri cchiù furiusu
e lu me’ cori resta scunfurtatu.

Quanto staremu ? Dillu, varca mia.
Suli, spirduti, senza na spiranza;
sempri accussi sarà la vita mia?
Taliu lu mari e cchiù furiusu avanza!


Un tema, quello dell’imbarcazione in balia delle onde, che allegoricamente rappresenta la vita umana ha molti esempi nella poesia dotta di ogni tempo, da Alceo a Orazio, Petrarca e Carducci. L’arricchimento culturale di Vincenzo Licata ad altro non servì che a rafforzare in lui il culto del mare, e del suo mondo, quel mondo fu sempre presente nelle sue poesie che, dopo “C’è pirmissu ?”, furono raccolte in “Furanata” (1958), “Lu casu di Sciacca” (1968), “La scunfitta di Roncisvalli” (1974), “Vintuliata di Marina” (1983), “San Franciscu d’Assisi a Munti Kroniu” (1994) e, per il teatro, “Don Turi e Ganu di Magonza”, scritto nel 1977 per il Gruppo Teatro Tredici di Sciacca e rappresentato al Teatro Biondo di Palermo nel 1994 con Ciccio Ingrassia e Mimmo Cuticchio.
Erano gli anni che concludevano quel periodo di apparente benessere passati alla storia come gli anni del boom economico, ma al cui interno covavano i germi della lunga stagione del malessere che dal ‘68 prese l’avvio fino agli sbocchi tragici che sappiamo. Allora Vincenzo Licata si chiedeva quanto valesse avere la fedina penale immacolata << si un surci di politica chi l’avi mascariata è Diu ‘menu lu populu cumanna e si fa strata >>.
Ma da Licata non viene soltanto la condanna dei mali della società corrotta, della responsabilità della Chiesa, del disprezzo dei valori insito nella crisi della scuola, dell’indegnità di tanti settori della classe politica: da lui viene anche l’auspicio che, superato ogni pessimismo, rinascano anzitutto i valori della scuola che deve riassumere il suo ruolo naturale di educatrice, e che la democrazia ricostruisca le sue fondamenta sulle virtù civili di ogni suo componente. In questa fiduciosa speranza va collocata la missione poetica di Vincenzo Licata ed il suo profondo radicamento nella coscienza popolare, ancora oggi.
La notorietà di Licata ebbe pure un risvolto inconsueto per un poeta: infatti dall’incontro occasionale con il regista Pietro Germi, che nel 1963 proprio a Sciacca girava il film “Sedotta e abbandonata”, derivò la sua partecipazione ad esso nella parte di Pasquale Profumo, l’organizzatore del rapimento della protagonista, Stefania Sandrelli. A quel film Licata collaborò componendo le parole del brano, inserito nella colonna sonora “Vampata d’amuri”, la serenata che il seduttore cantava alla sua bella. La seconda esperienza in campo cinematografico Licata visse partecipando nel 1979 al film di Francesco Rosi “Cristo si è fermato a Eboli”, in cui sostenne la parte dell’emigrante napoletano tornato in Italia dall’America.
Vincenzo Licata ebbe un “dono”; il suo volto, che lui definiva “uno scoglio”, era solcato da profonde rughe che gli avevano scavato il volto in età non veneranda.
Quelle rughe non si possono spiegare con la salsedine, Licata infatti non affrontò mai la vita di mare se non in giovanissima età, non quindi un pescatore a contatto con la salsedine marina. Un “dono”, quindi, quasi una sorta di “stimmate” che il mare ha voluto imprimergli nel volto per ricambiargli l’amore e la passione autentica di poeta e di uomo cui s’era abbandonato.

ANTONELLO LICATA
figlio di Vincenzo

RICONOSCIMENTI

  • Concorso Nazionale di poesia Dialettale – Premio San Remo “Microfono d’Argento E.I.A.R. 1948;
  • Concorso Placido Fardella – 1° Premio, Medaglia d’Oro 1956;
  • Premio della Cultura del Consiglio dei Ministri Medaglia d’Oro 1965;
  • Festa del Mandorlo in Fiore – E.P.T. di Agrigento – Medaglia d‘Oro 1967;
  • Concorso Nazionale di Poesia Dialettale “Nino Martoglio” – Medaglia d’Oro del CIAC – ROMA, Trofeo Nino Martoglio e Medaglia d’Oro Camera dei Deputati – Roma, Sala Protomoteca del Campidoglio, 1974;
  • Primo Premio Annuale “Tommaso Fazello” – Comunità fra i Saccensi e gli amici di Roma, 1976; Premio Talamone Agrigento, 1980;
  • AICS Agrigento “Premio Palcoscenico” Alla Memoria, 1996.


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