AMORE E VENERAZIONE


Fonte: http://www.allposters.it/-sp/Innamoramento-Posters_i8080856_.htm

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L’avevo conosciuta e m’ero innamorato di lei in autunno, in una casa di campagna in Toscana dove ci eravamo ritrovati in una comitiva di giovani ed allegri amici per la raccolta delle olive. Era un divertimento passare da un albero all’altro sul fianco argenteo di una collina, stendere le reti, riempire le ceste. Lavoravamo sodo, uomini e donne; eravamo impegnati a concludere la raccolta prima dell’arrivo di una perturbazione che l’avrebbe resa impossibile. L’aria era appena sfiorata dai primi freddi, e la sera era bello ritornare alla vecchia cascina, accaldati negli abiti gelidi, cenare davanti al camino acceso con le cose semplici che ci aveva preparato la cuoca e bere il Morellino fatto dal padrone di casa.

M’ero innamorato di un amore umile ed audace, come quello che un paggio ha per la sua dama, perché era una signora ammirata da tutti. La sua bellezza aveva un’aria condiscendente che non incoraggiava un ragazzo ancóra inesperto qual ero allora, ma avevo la sfrontatezza della gioventù e questo bastò. Quando finalmente la conquistai ricordo che mi sentivo felice al punto che, fermo sulla terrazza di casa sua davanti al mare che mormorava calmo, mi chiesi con una punta di sospetto verso l’avvenire: Devo pagare per tutto questo? E quanto?

Ero molto giovane, l’ho detto. A quell’età, per fare un esempio, si beve perché si ha sete, oppure per sbronzarsi. Si beve e basta; solo quando si è un po’ più maturi si comincia a far attenzione alla qualità del vino. Una volta, anni dopo, conobbi un vedovo ricchissimo, il quale manteneva alla sua bella età un paio di amanti giovanissime. Un giorno gli chiesi se sentiva davvero la necessità di farsi delle illusioni sulla natura sentimenti delle due ragazze verso di lui. Il vecchio rimase soprappensiero per un po’ poi mi disse:

Se il cuoco mi serve un buon minestrone, non mi chiedo se mi vuole bene.

Giusto. Ecco, questo per dire come si ragiona diversamente ad ogni età.

Ero innamorato di quella donna, ma il successo mi aveva dato alla testa e pensavo che il bel minestrone che mi era stato servito comprendesse anche una generosa dose di amore. Non era così, naturalmente. La donna, più vecchia di me di qualche anno, si rivelò possessiva e gelosa. Frequentavo la sua casa e i suoi ricevimenti mondani, e spesso capitò che in compagnia di amici mi rimproverasse e mi trattasse proprio come fossi il suo paggio. Certo: era stato il mio primo atteggiamento succube quando ancóra le facevo la corte a spingerla a questa condotta, ma c’era anche il suo carattere autoritario che contribuiva. Protestai, ma non servì: la sua arroganza continuò ed ero diventato lo zimbello suo e dei suoi amici. Cominciò a venirmi il sospetto che si volesse servire di me e del suo amore, se così vogliamo chiamarlo, per ingelosire il marito, che peraltro non avevo mai incontrato, la signora era una donna molto indipendente. Iniziai a sospettare che di lui fosse sempre molto innamorata, e che la relazione con me avesse uno scopo nascosto, forse proprio che fosse scoperta dal marito. Cercai di allontanarmi da lei, ma era abilissima nel farsi perdonare e desiderare. Ed io ero così ingenuo da perdonarla ogni volta, e da desiderarla. Tuttavia cominciavo a sentirmi proprio stanco, non tanto della signora, quanto di me e del mio stato d’animo sempre così turbato ed eccitato quand’ero con lei. Cominciavo a prepararmi mentalmente ad una scenata finale che avrebbe posto fine al nostro rapporto.

Una sera che ero andato a casa sua per una cena tra pochi amici conobbi suo marito, e rimasi stupefatto. Fino ad allora lo conoscevo come Pucci, così come lo chiamava lei; ne conoscevo il cognome, naturalmente, ma non l’avevo mai associato con l’uomo che incontrai quella sera. Si trattava dell’idolo della nostra generazione di studenti, del filosofo che ci aveva fatto innamorare tutti con le sue prose violente e rivoluzionarie. I suoi scritti, pubblicati regolarmente su giornali underground, venivano passati di mano in mano e analizzati e commentati da noi per lunghe sere. Ognuno li chiosava a suo piacimento e si sentiva l’unico vero interprete del suo verbo. Le discussioni tra di noi ragazzi erano infinite, salde amicizie si incrinavano pericolosamente sull’interpretazione di una sua frase. Alle sue lezioni partecipavamo in tanti, anche se non iscritti alla facoltà di filosofia, rubando il tempo alle nostre vere lezioni.

A cena mi misi a parlare con lui, favorito dal fatto che a tavola era seduto proprio di fronte a me. Forse non avrei dovuto, ma come si può pretendere che mi lasciassi sfuggire quell’occasione con un dio della mia giovinezza incontrato per caso?

Fu una serata memorabile, in cui io ascoltai incantato le sue parole, mentre lui discorreva beato, ben conscio del fascino che esercitava su di me e sulla tavolata intera, uomini e donne. Sua moglie prestava ascolto indifferente, a volte girando ostentatamente il viso dall’altra parte, come l’assistente del mago annoiata dai soliti vecchi trucchi, sotterfugi, e giochi di prestigio che conosce da sempre. Una luce rabbiosa brillava nei suoi occhi, che non sapevo se attribuire alla sua gelosia, che conoscevo bene, o a qualche altro sentimento come il risentimento.

Il giorno dopo, quando vidi la signora a tu per tu, la scenata che avevo programmato di eseguire fu anticipata da lei, con una tempesta di gelosia cui non ho mai più visto una simile, il cui apice fu la frase:

Tu tieni più a mio marito che a me! Tu ami lui, non me!

Quando disse così io non risposi nulla, perché sapevo che aveva ragione. Mi ero reso conto la sera prima che i sentimenti amorosi per la moglie erano ben poca cosa in paragone a quelli di ammirazione, stavo quasi per dire di venerazione, ispiratimi dal marito. Se l’avessi incontrato quando avevo conosciuto la moglie o anche se mi fosse stato presentato prima, non credo mi sarei mai innamorato di lei. Capii quel giorno che l’amore che lei provava per il marito era vero ed intenso, e per di più accompagnato da una furibondo sentimento in cui c’entrava la gelosia (a quanto pareva non riusciva a tenerla fuori da una qualsiasi delle sue relazioni), ma non in maniera prevalente. Quello che in realtà la faceva soffrire non era la lotta per il possesso, ma la competizione. Era gelosa del marito come un ragazzo che fosse invidioso dei suoi trionfi. In compagnia di tutti i suoi adoratori lei non aveva occhi che per il marito, come il ciclista che di tutti i partecipanti alla gara tiene d’occhio solo quello che pedala davanti a lui e gli insidia il primo posto. Noi tutti, gruppo di gregari, esistevamo solo perché destinati al possesso dell’una o dell’altro. Ed ella ghermiva i suoi amanti, di cui io ero l’ultimo, con l’unico scopo di accumulare conquiste in numero superiore a quelle dell’uomo che amava.

Quel giorno stesso si concluse una storia tutto sommato abbastanza infelice per me, e son certo anche per lei. Non ho più rivisto quella signora se non qualche anno fa, a teatro. Era accompagnata da due nipotine, che le stavano a fianco. Io dal palco la guardavo: era sfiorita, il suo bel viso devastato dal tempo che aveva fatto la sua parte. Eppure sembrava felice, ed irraggiava una tal serenità come mai le avevo veduto al tempo della nostra relazione.

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di Alessandro Cuppini

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“AMORE E VENERAZIONE” ha partecipato all’edizione 2011 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”.

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