La roccia bianca

Stava tornando a Catania. Stando alle convenzioni astronomiche si era ormai in autunno, ma in Libia faceva ancóra molto caldo, e nell’abitacolo, pur se tutto aperto, si sudava.
La rotta tra Libia e Sicilia era fissa: bisognava aggirare Malta, che era in mano agli inglesi e quindi si costeggiava noiosamente la còsta libica fino alla Tunisia. Sopra Capo Bon, estrema punta NE dell’Africa, incominciava il tratto di mare che avrebbe attraversato in meno di un’ora.
L’aveva fatto ormai diverse volte quel percorso e non era preoccupato: si trattava di passare bassi sul mare per sfuggire alla ricognizione inglese. Gli Spitfire si alzavano tutti i giorni da Malta per pattugliare quel tratto di mare ma a lui non era mai capitato di vederne uno. Erano aerei monoplano moderni, una volta e mezzo più veloci del suo CR42, con un’autonomia ben superiore e molto meglio armati: un incontro con loro non sarebbe stato uno scherzo.
Volava tranquillo, a 50 metri di quota, aveva da poco lasciato Capo Bon sulla sua destra. Erano le 11 quando guardandosi attorno, come gli avevano insegnato alla scuola di guerra, vide due puntini alti nel cielo a ore 5, grosso modo a mille metri di quota. Sentì un crampo stringergli lo stomaco: quei due stavano picchiando in direzione del suo piccolo aereo e dalla velocità con cui si avvicinavano, prima ancora che dalla sagoma e dalle insegne sulle ali, riconobbe che erano due Spitfire. Diede gas passando dalla comoda velocità di crociera a quella massima che il CR42 permetteva.
Si abbassò un poco di quota, aspettando di vedere cosa volevano fare. No, non c’era da farsi illusioni: l’avevano visto e, da come si stavano abbassando, era chiaro che gli volevano dar la caccia.
Allora azionò la manetta detta del +100. Si trattava di un artificio che andava usato con prudenza: erano 100 giri supplementari che il motore poteva fornire e servivano soprattutto in fase di decollo quando era richiesta potenza per staccarsi da terra; ma non si doveva esagerare perché quello sforzo che veniva richiesto al motore e alle strutture dell’aereo poteva costare caro. Gli istruttori consigliavano di staccare il +100 dopo qualche minuto, quando la quota di crociera era raggiunta.
Non appena ebbe tirato la manetta sentì l’aereo vibrare tutto e cabrare sotto l’improvviso aumento di velocità impresso dal motore. Corresse l’assetto e guardò nel retrovisore: naturalmente i due Spitfire si avvicinavano, come previsto, e la sua salvezza consisteva nel raggiungere il più in fretta possibile la còsta siciliana.
Si abbassò di altri venti metri; ormai sfiorava le creste delle onde. Così non avrebbero potuto attaccarlo da sotto. Ma poi c’era anche un aspetto psicologico: si sentiva più vicino alla terra, come se, nel caso fosse stato colpito, la minor distanza dalla superficie gli garantisse maggiori probabilità di salvezza. Ma forse era vero il contrario: colpito a più alta quota avrebbe avuto più chances di planare, di ammarare…Anche se, ammesso che avesse salvato la pelle, non sapeva come se la sarebbe potuta cavare, a galleggiare in mezzo al mare. Ma poi, l’aereo avrebbe galleggiato? O magari sforacchiato avrebbe cominciato ad imbarcare acqua e sarebbe affondato in un attimo…Senza contare che anche se avesse galleggiato avrebbe potuto prendere fuoco.
Quanto mancava alla Sicilia? Nella tensione dell’attacco imminente aveva perso la sensazione del tempo che passava e il conto delle miglia. Erano le 11,05, i due gli si erano messi dietro da solo cinque minuti e la Sicilia era ancóra lontana; lanciò un’occhiata alla bussola: la rotta era a posto, ENE tre gradi a sinistra.
Quante idee, quante probabilità da calcolare, quante possibilità gli passavano per la testa! Si accorse che da quando era incominciata quella caccia non aveva pensato una volta a lei e alla piccolina che l’aspettavano a casa: buon segno, pensò col consueto ottimismo, si vede che sotto sotto non considero la situazione ancóra grave.
Ma il crampo allo stomaco non cessava. La situazione era seria ed era meglio non pensare a casa, meglio concentrarsi sul pilotaggio: era rischioso volare a quella quota, bastava un’onda appena più alta del normale per piantarsi e cappottare. E poi bisognava tenére la rotta, guardare continuamente nello specchietto per non farsi cogliere di sorpresa e cercare di indovinare le mosse dei due caccia inglesi.
La tattica d’attacco gli era nota: uno sarebbe rimasto in quota, pronto a intervenire; l’altro si sarebbe portato in coda al suo CR42. E così fecero i due Spitfire.
Guardò avanti: la rotta puntava su Sciacca e sopra Sciacca c’è un punto di riferimento preciso, una bianca montagna che incombe sul paese, un ammasso di calcare di un bianco che sa essere accecante da vicino e che si scorge molto bene anche dal mare. Ma lui era così basso sulle onde che forse l’avrebbe vista solo quando fosse stato sul porto.
Guardò nello specchietto: uno Spitfire era ormai a duecento metri dietro di lui, leggermente alto e stava abbassandosi per porsi esattamente in scia. Ecco, ora si era piazzato proprio dietro, e certamente aveva sentito il leggero sobbalzo che càpita a mettersi nella scia di un altro aereo.
Gli venne in mente il suo istruttore di volo: saprai di aver fatto un loop perfetto quando ritornando in posizione orizzontale sentirai il sobbalzo del rientro nella tua stessa scia…Ma cosa gli veniva in mente! Aveva altro a cui pensare, ora!
Sul mare davanti vedeva un peschereccio che si avvicinava. A bordo scorse due pescatori. Ci passò rapidissimo a fianco ed ebbe la visione di quattro occhi stupiti che lo seguivano mentre i due si buttavano giù sul ponte, tra le reti.
L’aereo vibrava sempre più, sentiva la cloche fremere sotto di sé; ma ancóra rispondeva bene nonostante lo sforzo che gli stava chiedendo.
Guardò lo specchietto: l’inglese stava abbassando le mitragliatrici e stava preparandosi a sparare. Ora era tutta una questione di riflessi. Ormai non guardava più davanti, sperando che l’aereo fosse così intelligente da tenére da solo la rotta, a due metri dalle onde. Gli occhi li teneva fissi sullo specchietto retrovisore, le gambe e il braccio destro pronti a scattare come fosse un centometrista sui blocchi di partenza.
Vide il lampo della mitragliatrice e in quel momento tirò la cloche e manovrò i pedali per cabrare verso sinistra di qualche metro di quota. Sentì la sventagliata passargli a fianco e trapassare la tela dell’ala destra: niente di grave, l’importante era proteggere la cabina e il serbatoio della benzina.
Lo Spitfire lanciatissimo gli passò sotto verso destra, e come fu passato lui si riportò in assetto di volo a pelo d’acqua. Guardò la bussola (tre gradi a sinistra di ENE) e l’ora: le 11,08. Davanti la còsta siciliana era sempre invisibile.
Si asciugò il sudore che gli colava dai capelli sotto il caschetto. Lo Spitfire stava cabrando per riportarsi in coda, l’altro osservava dall’alto.
L’inglese fece una rapida virata, e si mise in orizzontale e poi con calma si abbassò per mettersi in scia dietro di lui. Ricominciava la caccia e di nuovo sentì le braccia e le gambe irrigidirsi sui comandi. Al lampo delle mitragliatrici tirò la cloche a due mani, con una tal violenza che l’aereo s’impennò con un ululo di protesta mentre la raffica passava sotto. Sentì i colpi sforacchiare la coda ma senza far danni seri; un attimo dopo lo Spitfire rombante gli passò sotto a meno di dieci metri. Anche stavolta era andata! Si riportò al pelo dell’acqua, ricontrollando velocemente la strumentazione e la posizione degli aerei nemici.
L’aereo attaccante dopo un ampio giro stava scendendo a pelo d’acqua dietro di lui. La tattica non poteva che essere quella di continuare per la sua rotta sperando di vedere la Sicilia al più presto. Tanto per provare si alzò di dieci metri di quota, allungando il collo: macché! Della còsta siciliana nemmeno l’ombra. Erano le 11,13. Non aveva tempo per fare i conti di quante miglia mancassero, lo confortava però il fatto che la maggior velocità del +100 gli avrebbe dovuto abbreviare il tempo di traversata. Si riportò sull’acqua. Per la terza volta lo Spitfire si stava riallineando sulla sua rotta. Cocciuto quell’inglese! Ma dai, lasciami perdere!
Ma quando guardò di nuovo indietro si accorse che qualcosa stava cambiando nella tattica d’attacco. Lo Spitfire si stava alzando in quota, ormai era a trecento metri sopra di lui. Lanciò un’occhiata in alto, verso il secondo aereo inglese: ma come! Stava virando e tornando indietro!
Allora capì e per averne la certezza salì di una ventina di metri: una macchia bianca, ma non era una nuvola, si stagliava davanti a lui, alta sull’orizzonte. Sotto, nel chiaro della mattina autunnale poteva distinguere già le case di Sciacca.
Sentì qualcosa in gola che pizzicava. Guardò per sicurezza di nuovo verso gli Spitfire: stavano facendo rotta SO. La mano gli corse alla manetta del +100, abbassò il numero di giri e si mise a danzare di coda, prima a destra poi a sinistra, a tempo di valzer.
Solo allora gli occhi gli si riempirono di lacrime pensando alla sua piccolina.
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Episodio vero, capitato a mio padre, pilota di caccia durante la guerra in Libia.
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di Alessandro Cuppini

L’opera “La roccia bianca” si è classificata come finalista nella Sezione Racconti del Premio Nazionale di Letteratura e Poesia “Vincenzo Licata – Città di Sciacca” – Edizione 2010.

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