LE STANZE DELLA VITA

Ricordo quella mattina.

Era un giorno come tutti gli altri. Gente che andava di fretta, macchine impazienti, bambini capricciosi, il solito mendicante, la solita indifferenza…

Convinta e responsabile delle mie azioni, nonostante tutto, nonostante i pregiudizi, nonostante il luogo comune e nonostante la mia solitudine. Ho agito per AMORE, per grandissimo AMORE.

 

Il mio nome è Pearl.

Non so perché i miei genitori mi abbiano assegnato questo nome. Solo una volta ricordo di aver sentito mia nonna rispondere a una conoscente che le chiedeva come mai quel nome così particolare per la nostra cultura.

“Sa signora, mio figlio ha viaggiato molto e…(gli occhi di mia nonna si persero nel vuoto) una volta…(accarezzandomi i capelli) ritornò con la mia bellissima nipotina, Pearl. Gli chiesi il perché di quel nome…solo così, per curiosità! Ma lui…” e le sue labbra si chiusero mentre accennava un “no” con la testa.

Quella fu l’unica volta che sentii parlare dell’origine del mio nome.

Avevo 6 anni e “Pearl” mi piaceva.

 

Vicino alla casa dei miei nonni c’era un albero sempreverde (o almeno così mi sembrava). Quando ero piccola quell’albero mi pareva altissimo, grandissimo.

Lì, dove nasce il tronco, c’era uno scalino dove io solevo sedermi quando ero stanca di giocare o quando d’estate cercavo un po’ d’ombra, o quando amavo fantasticare sulla mia vita futura…e passata…e su quel nome così inconsueto. “Pearl” “Perla”!

Chissà perché mio padre amava così tanto quel nome e chissà perché un giorno, mentre mi raccontava dei suoi bellissimi e fantastici viaggi, mi guardò intensamente, accarezzò i miei lunghi capelli…e aveva l’onda negli occhi.

Quell’immagine mi accompagnò per anni.

 

Era un pomeriggio di primavera. Passavo davanti alla sua stanza. La porta era aperta…mio padre era appena uscito.

Un raggio di sole, abusivamente, era entrato dalla finestra, oltrepassando la tenda e andandosi a posare su un cassetto semiaperto. Fui come rapita da quella visione ed entrai.

Con passo incerto mi avvicinai lì dove il sole si posava e tirando verso di me la piccola maniglia vidi un foglio con una serie di parole, scritte con inchiostro rosso.

La mia mano tremante prese con delicatezza quella carta consumata e i miei occhi curiosi e avidi iniziarono a leggere….

“…e lui la guardava. Era lì, tra le sue braccia, immobile come un masso. Il buio di quella stanza regnava sui loro corpi, quasi volesse divorarli. Ma lui non gli dava peso; la contemplava, l’accarezzava, ma lei niente nemmeno un cenno. Sembrava che tutto le fosse estraneo, che quegli occhi non volessero mai più aprirsi: eppure era lì. Quella sua freddezza gli spezzava il cuore, quella sua passività lo faceva impazzire. La stringeva ancora di più, la chiamava, bagnandole il viso con le sue lacrime.

Chi era? Con quale diritto aveva distrutto la sua vita? Perché intorno vi era solo silenzio? Perché quelle ombre non parlavano? La portarono via e lui non poteva impedirlo! Ebbe solo la possibilità di sfiorarle i suoi lunghi capelli, e poi…nulla gli rimase di lei.

Ormai il tempo aveva cancellato tutto, il mondo aveva ripreso il suo cammino: ma lui no.

Ricordava ancora i suoi occhi, il suo sorriso, il suo corpo, la sua dolcezza.

Non avrebbe mai potuto dimenticare quella notte…quando tutto finì.

Una bambina lo chiamava: era sua figlia. Una figlia che tanto amava quanto amò lei.”

Mi accasciai sulla poltrona senza un solo centimetro di muscoli che potesse reggermi.

Il rosso dell’inchiostro era diventato fiamma dentro di me e poi fuoco.

Conoscevo quella calligrafia.

Ero strabiliata. Lui era mio padre e…quella donna chi era?

Mi sporsi in avanti per posare il foglio nel cassetto quando i miei occhi, sempre più desiderosi di sapere, scorsero l’angolo di una carta da lettera, con una particolare caratteristica…la forma di una perla.

Il cuore…non riuscivo a trattenerlo! il respiro…velocissimo…tremavo…

Quella carta mi apparteneva, era mia…! La feci scivolare tirandola tra il pollice e l’indice, fino a quando il blu notte dell’inchiostro non fosse del tutto uscito dall’oscurità:

“A te piccola Pearl.

Non vorrei mai dirti che la luna è sì candida, ma ha anche le sue ombre scure!

Non vorrei mai dirti che il sole sì ti riscalda ma se ne prendi troppo brucia!

Non vorrei mai dirti che l’acqua sì ti purifica, ma se la temi rischi di annegare!

Non vorrei mai farti credere cose che non sono vere!

Vorrei solo dirti: ama.

Ma nel frattempo non voltarti mai indietro.

Ci sarebbero tante cose che non ti piacerebbe vedere; ci sarebbero persone che non riconosceresti più; ci sarebbero volti diversi, sguardi obliqui, mani fredde, bocche serrate, braccia di legno, gambe tremanti, piedi girati. Ci sarebbero corpi offuscati, contorni sfumati, giorni dimenticati.

Pochi i sorrisi; pochi gli occhi teneri.

Ma non avrei mai il coraggio di dirti queste cose, perché credo in te, nella tua innocenza, nel tuo dolce viso, nel tuo cuore puro, nei tuoi sorrisi luminosi, e nella tua voglia di vivere.”

La bocca mi penzolava, gli occhi valigie d’acqua, il sole che mi scaldava…

Non conoscevo quella calligrafia.

Avevo 14 anni.

 

Era un caldo giorno di autunno. Volevo fare una passeggiata, così m’incamminai.

In realtà non sapevo dove andare, non avevo una meta, ma i miei piedi cominciarono a partire. Camminavo, camminavo e non pensavo.

Amavo passare sotto gli alberi, sentire le chiome, con le foglie e i rami, accarezzarmi il corpo.

Immersa in queste piacevoli sensazioni, guardavo i miei piedi muoversi l’uno davanti all’altro nelle scarpe vecchie.

“Non mi piacciono queste scarpe (pensai sorridendo)…sono brutte! Però sono comode… eh sì… sono comodissime.”

Con ancora le scarpe negli occhi alzo lo sguardo e… incontro il tuo, che mi sorride e mi dici “Signorina ha la scarpa slacciata.”

“Quale mi scusi?”.

Sorpreso, divertito e perplesso “Eh… sì… la sinistra.”

Non voglio distogliere il mio sguardo dal tuo…non voglio perderlo!

“Ah sì, ha ragione!”

“Ma non ha neanche guardato!” Sempre più divertito “Potrei non averle detto il vero!”

Non so che fare. Sono paralizzata. Chi sei? Da dove vieni con quella fronte alta, le rughe armoniose, il sorriso accattivante, le labbra invitanti, gli occhi indagatori, languidi, appoggiati sui miei. La camicia, leggermente sbottonata, lascia intravedere un petto elegantemente abbronzato.

Divertito: “Se vuole gliela posso allacciare io!”

“Se vuole… gliene sarei grata!”

Spalancando gli occhi “…mi sembra tutto così incredibile…dicevo per scherzare, ma se proprio non ce la fa…”

Si china e sta per afferrare i lacci quando mi ricordo della bruttezza delle scarpe e immediatamente mi chino anch’io per fermarlo.

“No aspetti…”

Ma mi sbaglio e invece di afferrare i lacci, afferro le sue dita.

I nostri occhi s’incontrano! Entrambi le labbra socchiuse, entrambi sorpresi, entrambi immobili, entrambi imbarazzati, entrambi purpurei in viso, entrambi con la voglia di essere altrove, entrambi con un desiderio estraneo, entrambi con la voglia di fermare il tempo.

Lui: “Mi scusi. Addio!”

Io: “Addio”

Fa tre passi, io sono ancora china sulla scarpa, si volta “Qual è il suo nome?”

Tremo e con un fil di voce rispondo “Pearl”. Nonostante il suono flebile, lui ha capito e “Bellissimo nome” e a voce bassa “My Pearl”. Anch’io ho capito.

Si gira per andarsene ed io “Un attimo…il suo nome?”

“Dimmed”.

Io: “Dimmed”…. E penso a una incomprensibile coincidenza.

Ancora con la scarpa slacciata mi alzo, lui si gira e senza un saluto ci allontaniamo.

Un secondo, poi la sua voce “Pearl!”

Mi arresto e non oso voltarmi, non posso vederlo andar via.

“Pearl”…è dietro di me, sento il suo respiro sul mio collo, sento il mio nome nelle mie orecchie, il suo corpo a un millimetro dal mio.

Dico: “Sì?”

Il calore del suo fiato: “Mi farebbe molto piacere se lei per questa sera accettasse un mio invito.”

Senza voltarmi: “Ecco…io…ho un altro impegno!” e faccio per andare.

Ma lui mi afferra un braccio e la sua stretta è così forte che sono costretta a mettere la mia mano sulla sua per allontanarla…ma poi resta incollata lì “Mi dica di sì”

“Sì”.

 

E’ sera e siamo qui, su questo Terrazzo che domina la Valle. Soli io e te.

M’inviti a ballare…a ballare solo per te; un ballo che ti possa entrare dentro l’anima e farti abbandonare a me.

Il sole pian piano si nasconde dietro una nuvola e poi dietro quella bassa collina…e io ballo, ballo…ballo…e tu finalmente ti lasci rapire, e cominci a cingermi le spalle, i fianchi, il viso e con mani e braccia mi attraversi il corpo, il bacino, la schiena, i seni, e io mi allontano e mi lascio prendere…

Mi abbandono a te e continuiamo a ballare. E poi…

I nostri corpi diventano un solo corpo, un solo ballo, una sola anima, un solo disegno, una sola passione.

Il sole non si vede più. Ci ha lasciato la magia dei suoi colori…colori caldi, come caldo è il nostro desiderio.

Avevo 32 anni e alla porta della mia vita bussava l’Amore.

 

Mamma, è questo il cuore in cui credevi? E’ questa la voglia di vivere di cui parlavi?

 

Mariella Gravinese

Roma

Il racconto “Le stanze della vita” ha partecipato all’edizione 2012 del Premio Letterario “Vincenzo Licata – Città di Sciacca”, classificandosi al PRIMO POSTO della sezione “Racconti a tema libero n italiano”.

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